«La musica è un veicolo di comunicazione ed espressione». Sono le parole ripetute fin dalla conferenza stampa dello scorso agosto, dove veniva presentata la ventunesima del Sound Tracks Jazz&Blues Festival, proprio nella biblioteca della Casa carceraria. La dott.ssa Catia Bianchi (Funzionario Educatore) e il dott. Giorgio Leggieri (Direttore della struttura), subito si sono mostrati disponibili ed entusiasti di fronte alla proposta del comitato promotore: accogliere un evento esterno che potesse dare adito e valore alla capacità di dialogare con tutte le realtà, anche quelle più difficili. «Il blues», ricorda la presidente Daniela Rossi, «è la risposta popolare ai bisogni, alla voglia di riscatto. La scelta di voler suonare proprio qui a Bollate, è figlia della musica blues!».

Il tratto che conduce alla sala della musica è un mondo di colori, di messaggi urlati: un corridoio decorato da pitture che richiamano impressioni, sogni, desideri, che riflettono sulle ferite, sulle possibilità, sulla socialità del pregiudizio, su di un mondo che costringe a tenere lo sguardo basso. Disegni nati da percorsi di «arte terapia» con i detenuti, condotti da professionisti e allievi del Liceo Artistico e dell’Accademia di Belle Arti di Brera, con lo scopo di aiutarli ad alzare gli occhi, per potersi esprimere «liberi dalle gerarchie, dalle costrizioni e dalle finzioni». Traghettando, quindi, uno stato emozionale a carica già quasi piena, arriviamo all’auditorium in attesa delle esibizioni in programma durante la serata: apertura della Seven Band, la formazione del Settimo Reparto (che ha dovuto inventarsi un nome a cui non aveva mai pensato), e il duo bresciano dei Superdownhome, che fino a un paio di anni fa importava il Blues del Bel Paese in terra americana, senza per nulla sfigurare al cospetto degli artisti della terra madre.
Istituto a custodia attenuata, la seconda casa carceraria di Bollate prevede una risposta punitiva differente per ogni tipologia di detenuti, bilanciando l’aspetto disciplinare con quello rieducativo, filosofia che sposa il valore pieno del mettersi in gioco in modo autentico, spontaneo e costruttivo, attivando la capacità di comunicazione ed espressione e creando uno stato di benessere che implica un processo critico di conoscenza, crescita e trasformazione. È bastato percepirlo dentro agli occhi di quelle persone, quei musicisti che, martedì 7 Ottobre, suonavano davanti a pochi fortunati e ai loro compagni di sventura. Pino Daniele, Je so’Pazz, Cry to Me di Solomon Burke e poi Otis Redding, Sting, Bersani, Imagine di John Lennon, e Moondance di Van Morrison: un repertorio sicuramente non di facile gestione, ma Giancarlo, Diego, Fabio, i due Andrea, Mario, Alessandro, Luca e Ciro dimostrano un’attitudine da grandi artisti e alcuni di loro, in effetti, allegano al curriculum di studi un percorso musicale con i dovuti crismi. Poco importa se i componenti della band cambiano nel tempo (a seconda di uscite e ingressi): l’impegno dedicato in quelle sale prove lancia un segnale forte di trasformazione e di speranza. Felici, emozionati e visibilmente elettrizzati, dopo una quarantina di minuti i ragazzi della Seven Band cedono il palco al rodaggio dei Superdownhome, fra i miracoli di Enrico Sauda ai suoni per costruire qualcosa di credibile.
Detto, fatto: il duo bresciano si esibisce in uno fra i loro migliori live a cui io stessa abbia assistito, carico di forza, consapevolezza e palpabile energia. «Il blues rurale delle origini», quello più autentico, immaginifico, che chiama la popolazione nera a far sentire la sua voce: «È la musica che parla, le parole servono a ben poco», dice Facchetti. E così, fra cigar box a tre o a quattro corde, fabbricati con manici di scopa, custodie per nastri da film, pezzi da rigattiere e «chitarre di cartone» (come direbbe un vecchio amico) Enrico Sauda strapazza i suoi strumenti, dentro ai corposi pattern di Beppe Facchetti e la sua batteria, minimale ed efficace come un pugno nello stomaco. Il loro è un ampio excursus dentro a un cammino che li ha visti proiettati nella profonda tradizione Country Hill, incontro a fantasiose contaminazioni che hanno fotografato l’immagine più colorita dei primi Black Keys.
Motorway Son (ai tempi realizzato con Mike Zito), le scosse ipnotiche di Disaster Noon, Taverner’s Boogie (ripresa poi con Charlie Musselwhite), il rock garage di Utter Daze, I’m Your Hoochie Coochie Man, Long Time Blues e 24 Days, con la sua puzza di tabacco e Mississippi (registrata assieme a Popa Chubby quattro anni fa). Cavalli di battaglia di nove lunghi anni che suggellano un sodalizio duro a tramontare, seppure le comparse insieme si siano ridotte di gran numero. Un amore viscerale, il loro, per quelle sonorità ridotte all’osso. Musica di ribellione, musica di riflessione: quale migliore set per poter parlare a viso aperto: «Suonare qui stasera è un’esperienza che ti scava dentro, che ti dà spazio per riflettere sulla vita tua e quella degli altri» dice Enrico Sauda senza nascondere la sua emozione.
Effetti inzaccherati, voci sincrone e il plettro da pollice, i roboanti fuzz di Nobody’s Twist, con i suoi la la la che coinvolgono in un improvvisato call and response col pubblico, i battiti “in ritardo”, il giocare con gli stacchi: Facchetti sa bene quello che fa, domina il tempo, lo scandisce con misure che ti attraversano il lobo frontale. E ancora Shake Your Money Maker, con il suo boogie penetrante, il rock di New York City, la rivisitazione libera del brano di John Lennon, Ain’t No Real Love che aveva come ospiti, tre anni orsono, niente meno che l’armonica di Andy J.Forest e la chitarra di Anders Osborne. Le luci rosse illuminano il palco, tingendo dei colori dell’inferno le atmosfere. Sporchi e dannati come un tempo, i Superdownhome affondano l’impronta dentro al fango che ha inzaccherato la serata, per poi lasciarsi andare in una mega jam con Seven Band e Cek Franceschetti, super ospite alla voce, che rimaneggia una Sweet Home Chicago dentro a una grande festa della musica.
Sentimenti forti come un whiskey da quaranta gradi, che scendono giù per la gola frenando la commozione, in mezzo agli applausi di un pubblico entusiasta e fra due chiacchiere con i ragazzi. Episodi il cui riverbero impatta con le convinzioni, episodi che sconvolgono i preconcetti e aprono alle riflessioni, al cambio di prospettiva: guardare oltre gli errori ed il giudizio, aprendo quel dialogo che possa disgregare stigma e pregiudizi.