Foto © Rodolfo Sassano

In Concert

Shame live a Milano, 3/11/2025

Ogni volta che penso agli Shame, mi viene in mente un loro devastante concerto al Todays di Torino. Eravamo ancora in era Covid, si era ripreso a fare qualche concerto, ma vigevano ancora le regole di distanziamento. La band inglese mise in piedi un concerto feroce, rumoroso, potentissimo e per nulla educato che letteralmente fece saltare il banco, inducendo un senso di liberazione che in quel momento era esattamente quello che ci voleva. Potere della musica: quello di farti dimenticare le ansie e le angosce quotidiane con un pugno di canzoni, con un suono che ti trafigge l’anima o, come in quel caso, che ti prende a calci nel culo per farti sentire vivo. 

Gli anni sono passati, del Covid non si ricorda quasi più nessuno (ma ogni volta che vado dalla mia dottoressa, lei mi ricorda che invece «è vivo e lotta assieme a noi», più probabilmente contro), la voglia di concerti è ormai costantemente appagata e, forse, pure l’ondata post punk della quale gli Shame sono sempre stati alfieri, un pizzico a noia sta venendo. Astutamente, come detto più volte, la maggior parte di quelle band stanno provando a mutare il loro suono, allargandone le maglie o provando a spostarsi da qualche altra parte.

Pure la band guidata dal cantante Charlie Steen è tra queste. Il loro ultimo, ottimo devo dire, Cutthroat, album numero quattro della loro discografia, senza rinunciare a potenza ed energia, ha un po’ seguito i Fontaines D. C. nel dare un maggior appeal pop alla loro proposta, rafforzando l’elemento melodico, la varietà compositiva e dando al tutto un piglio più diretto, molto efficace. La cose gli è venuta senz’altro meglio che non ai Murder Capital, altra band che ha provato a giocarsi la stessa carta, mancando però il risultato di rimanere interessante quanto in passato.

Il Santeria Toscana 31 di Milano non è forse sold out, ma risulta parecchio imballato di gente, con tantissimi giovani, ma non privo di ascoltatori anche più stagionati. Aprono le danze i bristoliani Cyndys, titolari di un EP di sette brani intitolato The Cindys in uscita proprio in questi giorni. Indie rock chitarristico tutto sommato piuttosto classico il loro, ancora un filo acerbo e non del tutto perfetto, soprattutto per ciò che concerne le parti vocali, anche se in fondo discretamente fresco nel richiamare qui e là i Pavement e anche per via di una piccola spolveratura quasi Americana e power pop, che viene fuori in modo particolare nel momento in cui decidono di coverizzare All of the Time di Alex Chilton, manco a dirlo, il momento migliore della loro esibizione. Cresceranno.

Il pubblico li tratta bene, ma è nulla rispetto all’entusiasmo che accoglie gli Shame quando salgono sul palco alle 21:35. Steen ha un outfit di tutto rispetto: occhiali da sole, collarino da prete, pantaloncini dorati e giubbotto smanicato su petto nudo. Niente da dire, il ragazzo ha stile. Non l’unico della band a farsi notare, perché chiunque li abbia visti dal vivo, sa bene che razza di pazzo esagitato sia il bassista Josh Finerty, uno che pure in uno spazio ristretto riesce a suonare correndo, saltando e piroettando come se fosse attraversato da una corrente elettrica. Più statici gli altri, ma non è un problema visto quello che Sean Coyle-Smith ed Eddie Green tirano fuori dalle loro chitarre, mentre Charlie Forbes picchia sui tamburi.

Il focus della scaletta è soprattutto sui pezzi di Cutthroat che, anche dal vivo, dimostrano di essere perfetti e che, anzi, dal vivo acquistano persino in forza e potenza, non perdendo comunque quel tiro melodico di cui parlavamo sopra. Steen interpreta i pezzi con ruvidezza e quel pizzico di strafottente spirito working class tutto inglese, magari un po’ tamarro, ma simpatico. Le nuove canzoni perfettamente si amalgamano al repertorio passato – tutti gli altri album sono stati saccheggiati, con una predilezione per Drunk Tank Pink e Songs of Praise – e il concerto fila alla grande, mostrando una band compatta, eclettica e veramente in ottima forma. Per il sottoscritto, tra i momenti migliori la variegata Quiet Life, la magistrale Spartak e il finale dirompente con Water in the Well, Angie e la stessa Cutthroat.

I moshpit richiesti dal cantante (non che ce ne fosse bisogno) o il suo stesso stage diving sono note di colore che accrescono il divertimento, immettendo quel pizzico di adeguato caos in una performance credo assai più controllata di quello che la stessa band abbia voluto farci credere. Ma è proprio in questa mescolanza di istinto animale e potenza chirurgica che gli Shame, per un’ora e mezza di show, ci hanno convinto appieno.

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