In Concert

Sigur Rós live a Londra (UK), 30/9/2025

Abbiamo assistito alla prima delle quattro date consecutive della band islandese presso lo straordinario tempio londinese: un’esperienza musicale unica e difficile da dimenticare. 

Il sogno di una vita, quello di assistere almeno una volta a un concerto alla Royal Albert Hall di Londra, conosciuta fin da tenerissima età grazie a John Lennon, il quale, in A Day in the Life (1967) cantava di «quanti buchi servissero per riempirla», e che negli anni a seguire ancor più mitica sarebbe per me diventata, grazie ai numerosi concerti memorabili tenuti dai più importanti artisti della scena pop e rock. 

Farlo coincidere con un concerto del combo islandese è stato ancora meglio: amato sin dagli inizi, quasi venerato con il trittico di Àgœtis Byriun, ( ) e Takk e, anche negli anni a seguire, portato in palmo di mano quale solido esempio di ricerca originale, capace di mescolare suoni ed emozioni multimediali sino all’ultimo lavoro, Atta, uscito nel 2023. 

I tre Sigur Rós, capitanati dalla voce e dalla presenza magnetica di Jónsi, sono impegnati in un tour infinito, che continuerà anche nelle settimane e mesi a venire. Le premesse per qualcosa di unico e indimenticabile c’erano tutte e non sono state tradite affatto. Anzi, per quel che vale, ho assistito a quello che per me è il miglior concerto dell’anno in corso, addirittura uno dei più belli delle decine visti in questi ultimi anni. 

Lo shock visivo e l’emozione di ritrovarsi, circa un’ora prima del concerto, in questa enorme sala densa di storia e di bellezza, ha lasciato subito il posto alla musica, una volta che i tanti componenti della London Contemporary Orchestra (diretta da Rob Ames) e la band hanno preso possesso dell’enorme palco, in un’atmosfera soffusa, con giochi di luce delicati e smorzati, quasi soffocati, da una leggera nebbiolina di ghiaccio secco.  

Il tutto punta a creare la giusta atmosfera per i suoni usuali della band, dove alla radicata cultura musicale del profondo nord – quel profondo nord epico, mistico, contemplativo dal quale provengono – qui si sono aggiunte suggestioni di stampo minimalistico e rock sinfonico. Un’originalità sigillata dal canto etereo, spirituale e spaziale di Jónsi, che con i suoi vocalizzi cangianti, la sua lingua inventata (hopelandic) e le poche incursioni in quelle normalmente in uso, dimostra ancora una volta che per arrivare al cuore della musica e dell’ascoltatore, si deve partire dal proprio intimo, dalla propria fragilità, fantasia, passione, facendole fluire in un linguaggio universale che forse non tutti possono comprendere, ma che di certo emoziona.

I suoni sono spesso magicamente in bilico tra silenzio e fragore, tra l’intimo della notte e le improvvise esplosioni di luce. Due set di circa un’ora ciascuno, diciotto brani pescati tra il meglio della loro produzione, con un piccolo margine di vantaggio per Atta (quattro brani) e a seguire Takk, ( ), Me∂ Su∂ ì eyrum…, Hvarf/Heim e Valtari. Un’esperienza mistica e sensoriale di oltre due ore che è stata ben lontana dal solito, eventuale “Best of” che gruppi più o meno stracotti propongono in concerto dopo anni di onorata carriera. Alla Albert Hall il trio formato da Jónsi (voce e chitarra), Kjartan Sveinsson (tastiere) e Georg Hólm (basso), ha ricostruito e plasmato in materia nuova la propria storia musicale, facendo dei  loro paesaggi sonori una creatura più evoluta, questo con l’aiuto fondamentale della Contemporary Orchestra (già presente sullo stesso Atta). 

Due set, dicevamo, col primo, che si sviluppa dalle iniziali Bló∂berg ed Ekki Múkk, per trascinare da subito in un mondo di incommensurabile introspezione, dove il silenzio pare essere uno strumento aggiuntivo, che nessuno vede ma che si può cogliere. L’inizio di un viaggio di un’ora di ipnosi pura, che giunge fino alle conclusive Dau∂alogn e Var∂eldur. I suoni sono omogenei e sfuggenti, la spiritualità palpabile, e momenti di grande intensità come 8 e Von appaiono quali primi indizi del fatto che assisteremo a un crescendo nella seconda parte.

E ciò avviene: il secondo set del concerto si risolve in un crescendo emozionale al quale è quasi impossibile resistere. Vaka e Samskeyti (entrambe tratte dal famoso disco della parentesi) diffondono magia, leggerezza, malinconia minimalista pronta ad ascendere in cielo, così come accade anche con Ylur e Skel (entrambe da Atta, e qui capisco che l’ultima fatica in studio del gruppo, forse, non l’ho sentita e apprezzata a dovere, visto che queste versioni sono decisamente tra le cose più belle). 

Non potendo citare tutto, ci limiteremo a dire che il trittico che anticipa il finale di Avalon, e quindi, rispettivamente, Sé Lest (e la sua marcetta improvvisa da banda di paese, che si spegne nella nebbia silenziosa del canto soffuso di Jónsi), l’incredibile Ára Bátur (qui proposta in concerto nella sua interezza per la prima volta, con la presenza maestosa dell’organo della Albert Hall – 9999 canne – suonato da Anna Lapwood e le voci bianche della Cardinal Vaughan School), e la breve ma conosciutissima ed amata Hoppípolla, chiudono il concerto in modo magnifico, surreale, emozionante. 

Fuori discussione che l’acustica straordinaria di questa sala abbia aiutato molto. Ci piacerebbe molto se, da queste serate londinesi, venisse ricavato un album dal vivo. Dovesse accadere, credetemi, sarà un gran bel sentire.

Un ringraziamento davvero sentito ad Alex Dainese, per la profonda, erudita conoscenza del mondo Sigur Rós, dalla quale ho attinto a piene mani.

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