Foto © Shervin Lainez

Interviste

Smoke and blue(s) in the face: intervista ad Ani Di Franco

Parlare con Ani DiFranco significa entrare in contatto con una delle voci più radicali e coerenti della musica indipendente americana degli ultimi trent’anni. Cantautrice prolifica ed ispirata, attivista, impegnata per cause che riguardano lei e una collettività di non allineati. Impegnata, in primis, con sé stessa e la sua musica. All’attivo un’esperienza più unica che rara – per modalità ed esiti nel panorama statunitense degli ultimi lustri – nell’autoproduzione, con la sua etichetta Righteous Babe Records, DiFranco ha attraversato generi e generazioni. Coerente, sincera, senza sovrastrutture, right to the point tra femminismo, politica, arte e un presente da raccontare, imbracciando una chitarra per parlare ai (e dei) propri spettri e raccontare quelli di un io collettivo smarrito. 

L’intervista che segue si è tenuta telefonicamente, durante i preparativi per il tour di supporto all’ultimo album della cantautrice statunitense. Un lavoro che unisce raffinatezza sonora e urgenza espressiva. Ne è nata una conversazione sincera, ricca di riflessioni non solo musicali, ma anche personali e civili, tra memoria, militanza e futuro.

 È un onore avere l’opportunità di intervistarti,  grazie davvero.
Grazie a te per il tuo tempo.

In un’intervista precedente, parlando di 32 Flavors, hai parlato della competizione tra donne nel mondo musicale, dicendo che spesso «può esserci solo una ragazza nella lineup». È ancora così oggi o le cose sono cambiate?
No, penso che le cose siano cambiate abbastanza nel frattempo. Ora si vedono molte più donne ovunque: nei festival, nell’industria musicale, in ogni ruolo. Non solo cantanti, ma anche musiciste, produttrici, tecniche, esperte di produzione. Quindi sì, credo che siano stati fatti molti progressi in questo senso.

Nel tuo percorso discografico, l’album Little Plastic Castle è stato un traguardo importante. In passato hai detto che la popolarità ottenuta con quel disco è stata una benedizione ma anche una sorta di maledizione. Rifaresti le stesse scelte oggi?
Credo di sì, perché quello è uno dei miei album migliori. Ogni mio disco rappresenta un tempo, un luogo. Alcuni momenti e collaborazioni hanno portato a risultati migliori, altri più faticosi. Con Little Plastic Castle c’era grande energia e sinergia tra me e il mio partner e co-produttore. Tutto si è allineato. È vero, all’epoca mi accusarono di essere “commerciale” e di essermi “venduta”, ma riascoltandolo oggi non suona affatto pop. Era solo prodotto in maniera migliore rispetto ai miei dischi precedenti. Non ho rimpianti.

Se potessi creare un tuo festival musicale ideale, chi metteresti in lineup?
Wow… mi servirebbe davvero parecchio tempo per pensarci! Ma ti dico che sarebbe una lineup molto diversa: nera, bianca, verde, gialla, maschile, femminile, queer, etero, tutto. Perché la verità emerge dalla diversità, è la nostra forza più grande. In America, un paese fondato sull’immigrazione, dovremmo lavorare molto per mantenerla viva.

Come commenti questi primi mesi del secondo mandato di Trump? Per certi aspetti mi sembrano frame da un film post-apocalittico, tipo Mad Max
O di un film horror. Ma per me non è stata una sorpresa. Era tutto prevedibile. La mia frustrazione è indirizzata verso chi non si è presentato a votare. Chi sapeva ma si è fatto dissuadere, manipolare dai social, dalla disinformazione. E ora eccoci qui. Tuttavia, ogni giorno cerco di non riversare la mia rabbia su chi mi è più vicino. Anche se è difficile.

Parliamo di musica. Sei spesso stata la tua critica più severa. A pochi mesi dall’uscita del tuo ultimo disco, come lo valuti oggi? Sei soddisfatta o cambieresti qualcosa?
C’è sempre qualcosa che cambierei, ma penso che questo album sia uno dei miei migliori. Dopo tanti dischi, a volte ho dei rimpianti su come certe canzoni siano state registrate. Ma con questo album sento di aver fatto un buon lavoro, credo di aver reso giustizia a quelle canzoni.

Il tuo ultimo album per me è davvero riuscito. Le canzoni mi hanno dato emozioni diverse, una combinazione elettrica e acustica, texture complesse e fresche. Un grande traguardo! Come sta reagendo il pubblico dal vivo?
Molto bene. Specialmente tra le persone più “affamate di novità” e di connessione, di speranza. I miei concerti sono diventati incontri emotivi molto intensi. Le nuove canzoni parlano proprio di questo momento, quindi le suono molto e osservo con interesse quali risuonano di più, quali arrivano immediatamente al pubblico.

Qual è stata la canzone più difficile da scrivere dell’ultimo album?
Direi The Knowing, l’ultima canzone del disco. È nata mentre scrivevo il mio primo libro per bambini durante la pandemia. Era un modo completamente nuovo di scrivere per me, molto diverso dal mio stile abituale. Non riuscivo a scrivere, finché non ho preso la chitarra e ho scritto quella canzone, che è poi diventata anche un libro illustrato per bambini.

Nel brano Pacifist’s Lament parli di comunicazione e dialogo. È più difficile oggi avere conversazioni civili rispetto al passato?
Assolutamente sì. È l’epoca dell’indignazione, del giudizio, della condanna. Anche all’interno della stessa comunità progressista c’è poca tolleranza per le opinioni diverse. I social media e gli algoritmi alimentano rabbia e divisioni. Dobbiamo diventare più consapevoli e chiederci: «Sto reagendo così perché sono stato manipolato? C’è un modo migliore di agire?».

Hai un album al quale sei particolarmente legata?
Credo ci sia stato un periodo in cui ho davvero imparato a dominare lo studio di registrazione: Out of Range, Not a Pretty Girl, Little Plastic Castle, Dilate, Living in Clip. Poi c’è stata una fase più sperimentale, come Educated Guess registrato da sola in casa. E oggi penso di essere tornata a una fase creativa molto buona con album come Red Letter Year, Which Side Are You On?, Revolutionary Love e l’ultimo.

C’è un tuo album che all’epoca non è stato capito dalla critica?
Sicuramente. Dopo Little Plastic Castle, ho smesso di leggere le recensioni su di me. Era diventato soffocante. Volevo imparare, crescere, ma le opinioni degli altri mi imprigionavano. Reagivo costantemente e questo mi stava esaurendo. Quindi ho smesso di leggere tutto. E sì, so quando ho fatto un buon lavoro e quando meno. Fa tutto parte del viaggio.

Cosa stai ascoltando in questo periodo? C’è qualche artista che ti ha colpito?
Sto ascoltando i Bonnie Light Horseman, la band di Anaïs Mitchell, che ha scritto Hadestown, il musical in cui ho recitato lo scorso anno a Broadway. Mi piace molto quella musica.

Ani Di Franco porterà le canzoni di Unprecedented Sh!t con due date in Italia a giugno: sarà il 14 alla Casa del Jazz di Roma e il a Ferrara a Ferrara Sotto Le Stelle.
Per ogni info e biglietti: qui!

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