
Grande attesa, da parti dei seguaci del prog, per il ritorno sul palco di Steven Wilson e della sua band dopo tanti anni di assenza; attesa rincarata dalla curiosità di ascoltare la performance per intero del suo ultimo The Overview (due lunghe suite da oltre 20 minuti), disco di cui abbiamo scritto qualche mese fa.
Teatro degli Arcimboldi stracolmo in ogni ordine di posti e concerto che ha inizio poco dopo le 20:00, a garanzia che si tratterà di una lunga serata di musica. Al di là della ben nota abilità nel rimettere mano, da parecchi anni a questa parte (buon ultimo il lavoro effettuato per Pink Floyd At Pompeii), sul missaggio dei capolavori del prog e non solo (si pensi agli XTC di Andy Partridge), quello che continua a colpire, in Wilson, è l’amore sviscerato per le partiture lunghe e complesse dei gruppi di inizio ’70: un sentimento che, pur tradendo richiami ai grandi nomi del passato (come quelli degli stessi Floyd o degli Yes di Jon Anderson e Steve Howe), riesce comunque a tradursi spesso in formula originale, nella quale si coagulano anche elementi hard, folk e persino jazz.
L’attesa del pubblico è stata ampiamente ripagata. Si è trattato di un concerto splendido, di cui vi daremo qualche nota, ma credo valga la pena citare subito il lavoro fatto dalla band — stellare — composta dagli americani Randy McStine (chitarre) e Adam Holzman (tastiere), entrambi sul palco alla sinistra del leader (lo stesso Wilson ha detto scherzosamente di guardarli poco, durante lo show, pena il pagamento di una US Tariff, uno dei «dazi» trumpiani), e la sezione ritmica formata dai fidi Nicki Beggs (basso) e Craig Blundell (batteria).
Sfidante, a dir poco, far partire il concerto proponendo per intero le due suite dell’ultimo album, di fatto senza interruzioni tra le parti: poco meno di 50’ di musica, dunque, per Objects Outlive Us e la title-track, nonché la prova (se ce n’era bisogno) di come la resa live dell’ultima fatica di Wilson, sposata alle bellissime immagini spaziali proiettate dietro il palco (per la regia di Miles Skarin), sia perfetta e ammaliante per gli amanti del genere. Nell’immaginare questo astronauta che guarda la terra dallo spazio, sembrava a tratti di vedere e sentire i Pink Floyd (le chitarre dello stesso Wilson e di McStine), e come già scritto gli Yes, per le complesse parti vocali peraltro rese alla perfezione. Ottimo inizio, seguito da 20’ di pausa e ripartenza con un paio di brani — The Harmony Codex e King Ghost —anch’essi dal sapore cosmico, eseguiti in solitaria da Wilson e Holzman chinandosi su tastiere e synth: le due tracce sembrano davvero ricollegarsi all’atmosfera di quanto si è sentito in precedenza, e lo fanno bene.
Si debbono attendere la breve What Life Brings e una splendida Luminol per assistere ad un cambio di rotta in termini di atmosfera: metamorfosi cui si presta lo stesso Wilson, che in uno dei non pochi interventi tra i vari brani scherza con il pubblico, augurandosi che tutti i malcapitati non amanti del prog abbiano accompagnato mariti, mogli o amici, così da poter (obbligatoriamente) resistere al supplizio dei lunghi brani proposti. La verità è che la resa sonora è ottima e i brani molto belli, come confermano le successive Pariah, la quale gode del supporto vocale e visivo di Ninet Tayeb al canto, e ancor più Impossible Tightrope, dalla struttura molto complessa, uno dei tanti, piccoli miracoli compiuti da Wilson, in grado di farci tornare indietro nel tempo ma spiegando, in parallelo, come questo modo di far musica risulti vivo e vitale ancor oggi, in una contemporaneità riproposta anche nei visuals a base di guerre, povertà, inquinamento. Mentre i brani tratti da Harmony Codex ricevono il proprio battesimo live, Wilson scherza di nuovo sugli eventuali annoiati (excusatio non petita…) e finisce comunque in gloria con altri due brani luminosi come la quasi psichedelica Harmony Korine e Vermillioncore, entrambe desunte dalle sue prime fatiche.
In precedenza, Dislocated Day — un omaggio al suo passato nei Porcupine Tree — aveva ancora messo in mostra il notevole interplay tra i vari musicisti. Al quale, devo aggiungere, molto ha contribuito la destrezza di Wilson al canto, incluso un azzeccato uso del falsetto, e il suo variare strumento di brano in brano, proprio come nell’ormai leggendario salotto di casa sua. Si finisce con due bis, preceduti dallo stesso Wilson che, menandone vanto, sottolinea di non avere hit singles o brani famosi: la lunga e ammaliante Ancestral e la più posata, malinconica e riflessiva The Raven That Refused to Sing (title-track di uno dei suoi lavori più acclamati), decretano infine la completa riuscita dello show e, da parte d’un pubblico rapito da oltre due ore e mezza di musica, il trionfo di una grande serata.