Foto © Rodolfo Sassano L’ultima volta che mi era capitato di vedere dal vivo gli Swans era stato a Barcellona, al Primavera Sound, tour di The Beggar. Di tutti i loro concerti visti (e sono parecchi), devo ammetterlo, mi parve quello meno convincente: troppo monolitico, ormai ammantato di un po’ di maniera, chiaramente impossibile da liquidare come malriuscito, ma senz’altro troppo ripiegato su cose ampiamente scandagliate in precedenza, troppo auto indulgente per poter far gridare per l’ennesima volta al miracolo. Parte della (piccola) delusione, probabilmente, arrivava anche dal fatto che, invece, The Beggar era un album più musicale del solito, propenso a farsi più canzone e il fatto di ritrovarsi di fronte ai soliti Swans, un po’ di disappunto l’aveva creato.
Più o meno allo stesso modo, l’ultimo Birthing è l’unico album post reunion della band di Michael Gira, per il quale un po’ di esitazione nel glorificarlo appieno l’ho avuta, sostanzialmente per gli stessi motivi. Ok che il musicista americano ha dichiarato che, con quest’album, voleva dedicarsi per l’ultima volta a questa versione massimalista e soverchiante della musica della sua formazione, ma al netto delle dichiarazioni, volendo adottare uno sguardo critico e non solo da fan, il suo girare attorno a cose già esplorate ampiamente andava quantomeno segnalato.
Inutile dire che, da quel miscredente che sono, e visto quanto detto finora, in fondo mi aspettavo, da questo concerto all’Auditorium di Milano, un’esibizione potentissima, ma prevedibile e routinaria. Alla luce di quanto invece è successo, ora, non posso che inchinarmi e chiedere umilmente perdono per aver dubitato. Michael, m’hai fregato anche stavolta. Perdonami perché non sapevo cosa stavo dicendo.
Facezie a parte, diverse cose che comunque inducevano a recarsi al concerto c’erano: la location (l’Auditorium di Largo Mahler è uno dei posti più belli, sia esteticamente che dal punto di vista della qualità del suono, in cui vi possa capitare di vedere un concerto); l’apertura affidata a Jessica Moss e, ovviamente, il fatto che pure degli Swans routinari meritano sempre di essere visti. Il set della prima – lo ricordiamo, musicista del giro Constellation, membro di Silver Mt Zion e Black Ox Orkestar, oltre che intestataria di un’ottima discografia solista – pur nella sua brevità (20’) e del suo carattere sostanzialmente sperimentale e per nulla immediato, ha affascinato non poco, mescolando evanescenti melodie suonate al violino, drone profondi, sfrigolio di percussioni, per un trip fatto di bellezza assoluta, introdotto da un piccolo discorso a ricordare chi, in questo momento, deve preoccuparsi di schivare le bombe e non ha la fortuna di ritrovarsi in una sala a sentire musica.
Gli Swans salgono sul placo alle 21:45 e, sapendo la durata dei loro concerti, si capisce che si farà tardi. La prima grandiosa notizia, il ritorno in formazione del chitarrista Norman Westberg, con Gira fin dalla primissima ora, che nel tour precedente non c’era (e la sua mancanza si sentiva). Il resto della band è composta dai musicisti che ne hanno fatto parte in tutto il post reunion (Christopher Pravdica al basso, Phil Puleo alla batteria, Kristof Hahn alla lap steel) o nei tour più recenti (Dana Schechter a lap steel, basso e tastiere, Larry Mullins a mellotron, synth e percussioni). Assieme non sono solo un’orchestra, sono una macchina da guerra, le cui uniche bombe, per fortuna, sono quelle soniche.
Il primo pezzo è un mastodonte di oltre mezz’ora, The End of Forgetting, brano dalla struttura dinamica e mutante, capace di montare lentamente, tra sentori spirituali e passaggi evocativi, squarciati da lancinanti bordate di rumore, ma pure da aperture che potremmo definire rock, con le chitarre a dirigere passaggi a loro modo «classici». Una meraviglia assoluta, che già dà il tono a tutta la serata, facendo capire che stavolta il tutto avrà un sapore molto più studiato, vario e raffinato.
Subito dopo, Gira si alza dallo sgabello, lascia giù la chitarra, invita la gente ad alzarsi e ad andare sotto palco e, mentre la band esegue una martellante e tribale The Merge, uno dei pezzi migliori del nuovo album, lui si dimena in una danza da tarantolato, dimostrando di essere sempre quel vecchio mattoide che tanto amiamo. I più tipici Swans degli ultimi anni vengono fuori con la massiccia e ossessiva Paradise is Mine, ma già Little Mind è addirittura una ballata in parte recitata, fatta solo con mellotron, chitarra acustica e pochi tocchi di batteria, una di quelle cose assolutamente impensabili nei loro ultimi tour, vista la delicatezza poetica e intensa che infonde.
Il finale è in ulteriore crescendo, con l’ormai classica A Little God in my Hands e soprattutto con Newly Sentient Being, capace di racchiudere tutte le anime della band in un solo pezzo. Per le prossime mosse, Gira ha dichiarato che le cose saranno diverse. Non so, l’ha già detto in passato e staremo a vedere se stavolta manterrà la promessa. Intanto, una cosa sicura c’è: m’aspettavo una cosa di routine e mi sono ritrovato ad assistere a quello che, senza tema di smentita, è stato il mio concerto dell’anno.