THE HOOTERS Out Of Body
Universal
***1/2

Oltre a intraprendere un tour celebrativo, per festeggiare il loro 45° anniversario gli Hooters hanno deciso di rimettere in circolazione alcuni album del proprio catalogo. Tra essi spicca Out Of Body, disco del 1993 che all’epoca fu per lungo tempo (fino al 2007, per l’esattezza) l’ultimo nonché l’unico a non essere prodotto da Rick Chertoff bensì da Joe Hardy, già tecnico del suono per Steve Earle e ZZ Top. Inoltre, fu il primo in cui la band di Philadelphia guidata da Eric Bazilian e Rob Hymansi presentava in sestetto (grazie all’arrivo della violinista Mindy Jostyn, la quale aumentò la quota folk del gruppo).
Hardy modificò anche il modo di lavorare dei nostri, costringendoli a cercare un suono più diretto e coeso e accelerando i tempi di produzione, che si accorciarono dagli abituali 2/3 mesi a quattro settimane appena. Per il resto, Out Of Body proponeva la consueta miscela di rock, folk e pop che fondeva accessibilità e potenziale live, tendenza riscontrabile sin dall’apertura di 25 Hours A Day, rock’n’roll song dall’anima Irish diretta e potente ma orecchiabile al tempo stesso, perfetta per essere riprodotta in concerto.
Ancora meglio Boys Will Be Boys, scritta e cantata con Cyndi Lauper (che così rendeva il favore a Hyman, co-autore della celebre Time After Time), altro pezzo che si barcamena mirabilmente tra rock e pop, con uno di quei motivi che entrano in testa al primo ascolto. Shadow Of Jesus non è male, ma indugia in un arrangiamento eccessivamente moderno a differenza di Great Big American Car, che riporta il disco su lidi a noi più graditi con un folk-rock elettrico ben fornito di jingle-jangle e solito refrain vincente. Private Emotion, limpida ballata elettroacustica dalle sonorità bucoliche, precede la vibrante e roccata Driftin’ Away (tra le più coinvolgenti) e Dancing On The Edge, rock song dal ritmo sostenuto (anch’essa concepita per l’esecuzione on stage), mentre la solare All Around The Place è più roots, con una ritmica in levare che la avvicina al reggae: gradevole, ma nulla più.
Finale in crescendo con l’ariosa e splendida One Too Many Nights, tipica ballata elettrica, dalle tonalità epiche, in bilico tra rock e folk (forse il momento migliore del disco), e con l’altrettanto trascinante Nobody But You, tempo cadenzato e mood decisamente folkeggiante. Ristampa gradita, utile per farci riscoprire una band in passato oltremodo apprezzata.