Foto © Lino Brunetti A circa due anni di distanza dall’ultima volta, gli australiani Necks tornano negli accoglienti ambienti dello Spazio Teatro 89 di Milano. L’altra volta avevano fatto un concerto bellissimo – che personalmente ricordo, a posteriori, anche con un certo grado di commozione, visto che fu l’ultima occasione in cui ebbi modo di vedere in vita Teo Segale, tra gli organizzatori dell’evento, prima della prematura scomparsa, non molto tempo dopo – e anche stavolta non c’era da attendersi nulla di meno, anche alla luce del recentissimo Disquiet, il loro ultimo, mastodontico album, quattro pezzi per oltre tre ore di durata.
Chi conosce la formazione formata da Chris Abrahams (pianoforte), Lloyd Swanton (contrabbasso) e Tony Buck (batteria), sa benissimo che la pubblicazione di un nuovo lavoro è del tutto ininfluente nell’economia delle loro esibizioni dal vivo. Tutto ciò che suonano, infatti, è interamente improvvisato al momento. Si trasformano in una sorta di unica creatura a tre teste che pare comunicare a livello telepatico o, meglio, unicamente attraverso il linguaggio musicale, al quale ognuno risponde con incredibile maestria (quasi manco si guardano mentre suonano).
Inserita nella programmazione (sia pur quella collaterale) del JAZZMI, la loro performance ha radunato un discreto manipolo di appassionati, forse un po’ meno rispetto alla volta scorsa, ma non così pochi dopotutto, soprattutto considerando la particolarità della proposta.
Sono le 21:30 quando i tre salgono sul palco e, in un silenzio religioso, prendono posto dietro i loro strumenti. A dare il via al primo pezzo e Abrahams. Muove le mani sui tasti bianchi e neri del pianoforte abbozzando un fraseggio che prende corpo melodicamente a poco a poco. Concentratissimo, Swanton inizia a seguirlo suonando il suo strumento dapprima con l’archetto, poi con le dita, iniziando a costruire un’intelaiatura sempre più solida, completata dall’umorale lavorio ritmico di Buck, uno che praticamente mai interpreta il suo ruolo come quello di colui che deve banalmente tenere il ritmo, ma bensì come quello dell’ennesimo tessitore di una trama che fa formandosi su tempi come sempre ipnotici e lunghissimi. Il suono un po’ alla volta si fa più spesso, magmatico, iniziano a risuonare armonici che saturano l’aria, anche perché nel frattempo la velocità d’escuzione s’è fatta progressivamente più impetuosa, dando vita a un flusso nel quale rimanere intrappolati. La tensione ricomincia ad allentarsi e si ritorna un po’ alla volta al punto in cui tutto era iniziato, nell’estasi più totale. Questo, lungo una cinquantina di minuti.
I tre si prendono una quindicina di minuti di pausa, il tempo, per noi, di una visita al banchetto, di un pit stop al bagno o di una birra, e rieccoli sul palco per un secondo set. Se il primo ha sostanzialmente percorso i sentieri che gli ho visto battere già in altre occasioni, col secondo, sempre sui cinquanta minuti di durata, i tre rilanciano dando spazio a un maggior lirismo. A partire è Buck, intento a spazzolare e sfregare i suoi tamburi, seguito a ruota da uno Swanton che compie qualche giro di prova, prima di dare forma a una figura melodica che presto va a fondersi con quanto fatto da Abrahams. Il mood è più placido e meditativo, vicino a un dispiegarsi da jazz quasi classico, che non manca, anche in questo caso, di farsi a un certo punto più pieno e vorticoso, senza però perdere mai di vista la melodia intrisa di struggente poesia alla quale hanno dato corpo. Delizia pura e ulteriore dimostrazione d’immensa bravura.
Band unica, dalla grandissima originalità, se passano dalle vostre parti, non perdeteveli per nulla al mondo!