Recensioni

The Pleasures, Enemy of my Enemy

THE PLEASURES
Enemy of my Enemy
UBERSavvy Music / MGM
***

Chissà, magari tra una ventina d’anni, in un nuovo speciale sulla musica degli antipodi, su queste pagine potrebbero rispuntare anche i Pleasures, australiani a metà. Questo duo composto da Catherine Britt (voce e chitarra) e Lachlan Bryan (voce, chitarre varie e tastiere) giunge ora al secondo LP, dopo aver suscitato un certo interesse con il precedente The Beginning of the End.

Provenendo da continenti diversi, i due musicisti vantano background diversificati, avviata all’ascolto della musica americana più classica lei, lui a farsi le ossa col rock spartano dei Wildes (a Melbourne). E proprio con loro, durante un tour americano, si è imbattuto in Catherine; lei si è portata il marito Brad Bergenin qualità di batterista e Bryan il suo braccio destro nei Wildes, Damian Caffarella, al basso.

Il nuovo disco, pur con qualche riserva, si dimostra abbastanza riuscito, soprattutto per il connubio tra due voci diversissime che insieme creano motivo d’interesse: quella di Catherine più tradizionale, quella di Lachlan influenzata dal movimento outlaw. A dire il vero Enemy of my Enemy non parte benissimo: la title-track ha un attacco fastidiosamente radiofonico, tanto che, se non fosse stato per le voci, non ne avremmo terminato l’ascolto. Fortunatamente, le sorti si risollevano con Was it Something I Said, nella quale la coppia si divide le strofe (con qualche preferenza per la parte cantata da Lachlan, che in parte ricorda il Mark Knopfler dei primordi). All’arrangiamento sostenuto e robusto di questo brano fa seguito la più rurale Where the Money Goes, semi-blues a base di banjo.

In Step Away è la voce di Bryan ad aprire, con il supporto della pedal steel, poi le due ugole si uniscono e dopo, ancora, è Catherne a prendere in mano il timone (tanto per confermare di come l’alternanza al microfono sia il punto di forza della formazione). Wild Things è spiazzante come il brano iniziale, i suoni si fanno troppo sintetici anche se l’organo piace e il cantato è sempre all’altezza. It’s Ok (Knew What You Meant), con la chitarra arpeggiata e le delicatezze di armonica, sembra provenire da un altro disco. 

Seguono le sonorità suggestive di Let’s Go Again, in cui tradizione e modernità si sposano felicemente: qui le chitarre elettriche hanno un impatto meno disturbante e si amalgamano bene con l’organo. This Might Hurt a Little Bit è trascurabile, ma il disco riprende quota con The Rules, voci e chitarra, con pochissimo altro, nel segno dei migliori duetti dell’American music. Love Relapse manifesta una certa confusione, più o meno schiarita, in conclusione, dalla stonesiana Good People e dalla ballata A Little Blue. Insomma, un passo indietro rispetto al disco d’esordio, dove un po’ meno tradizione e un po’ meno audacia garantivano una dignitosa continuità sonora.

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