Jarvis Cocker – Foto: Rodolfo Sassano

In Concert

TODAYS 2019: report e gallery fotografica

Arrivo con un bel po’ di ritardo a scrivere del Todays 2019, un po’ perché reduce da una settimana lavorativa in cui molto semplicemente non ho avuto tempo per mettermi a scriverne, un po’ perché indeciso sul tono da usare nel commentare la notizia dell’abbandono da parte del creatore, deus ex machina e anima del festival, Gianluca Gozzi, arrivata praticamente all’indomani della chiusura di questa quinta edizione, probabilmente la più ricca, bella e riuscita nel suo insieme e da più punti di vista, un’edizione che ha fatto intravedere la possibilità di un’ulteriore crescita e di un auspicabile passo in avanti e su cui invece finisce col calare l’ombra del dubbio, non tanto (o non solo) sulla prosecuzione di una bellissima esperienza, quanto più sul riporre facili entusiasmi circa la possibilità di poter vedere svilupparsi un grosso festival tipo quelli internazionali sul nostro territorio. Alla fine, mettersi a fare speculazioni circa quello che avverrà, fare considerazioni sulle criticità evidenziate dal dimissionario direttore artistico (che qualcosa ha fatto trapelare in un’intervista alla Stampa, ma non abbastanza da poter delineare in maniera precisa una situazione che vien facile immaginare non così semplice o riducibile a qualche frase fatta), mi pare una cosa piuttosto futile e inutile, o comunque non una cosa da fare in questa sede. Per il momento prendiamo atto della possibilità di un cambiamento e, anziché mettersi a discettare circa il futuro di questo festival, concentriamoci su quello che è stato costruito finora, andando a raccontare, sia pur parzialmente, l’edizione di quest’anno.

Ciò che ha sempre reso particolarmente importante il Todays in questi cinque anni di vita, e quest’anno ancora di più, è la grande centralità della musica sul tutto. Potrebbe apparire una cosa scontata, ma invece non lo è. L’abilità di Gozzi è sempre stata quella di proporre dei percorsi all’interno delle line up messe a punto, a volte attraverso accostamenti coerenti tra artisti diversi fra loro, ma in fondo legati da comuni affinità, a volte invece giocando di contrasto, provando a far cortocircuitare pubblici differenti per vedere quello che veniva fuori. Entrambe le situazioni si sono viste quest’anno, la prima, senza dubbio, in un venerdì che ha visto sfilare nell’ordine Bob Mould, i Deerhunter, gli Spiritualized e i Ride; la seconda la sera di sabato, in cui l’intensità a tratti ostica dei Low è stata piazzata in un programma dalla più marcata anima pop, portando il pubblico di Hozier, ad esempio, a fare i conti con sonorità di cui forse poco o nulla sapevano (e che durante la performance del trio di Duluth non volasse una mosca induce a pensare che l’obiettivo sia stato raggiunto). Altra cosa importante del Todays è il rapporto col territorio: di certo, riferito ad esso, non sentirete usare frasi fatte tipo “nella splendida cornice del”, visto che volutamente il festival cerca di valorizzare la periferia torinese, usando come location semi abbandonati parchi lasciati al loro destino (il Parco Peccei dove alla domenica pomeriggio hanno furoreggiato, nella più adatta delle location gli Sleaford Mods), capannoni di fabbriche riconvertiti e il solito cortile dello Spazio 211. Così, per tre giorni almeno, la periferia si anima, viene puntato un faro su di essa e si capisce che il luogo non è necessariamente sinonimo di degrado, come in molti sarebbero purtroppo orientati a pensare, ma può invece essere perfetto laboratorio per attività culturali e sperimentazioni. Non una cosa da poco, lo ammetterete. 

Detto del perché così tanto ci piace il Todays – l’unica cosa su cui davvero si potrebbe fare di più riguarda il numero e la varietà dei punti ristoro (che di fatto si riducono a uno, con hamburgher anche molto buoni, ma con pochissime possibilità di andare oltre quelli) – passiamo a raccontare brevemente della musica vista e sentita quest’anno. Purtroppo il sottoscritto ha potuto presenziare solo alle prime due serate, perdendosi parecchio a malincuore la domenica, giornata che oltre ai citati Sleaford Mods vedeva sfilare Parcels, Balthazar, Johnny Marr, Jarvis Cocker e Nils Frahm.

VENERDÌ
Sono all’incirca le 18 quando, sotto un sole a picco, nonostante le previsioni che davano temporali, Bob Mould sale sul palco armato della sua chitarra elettrica. Che un personaggio del suo calibro, un autentico pezzo di storia del rock, abbia umilmente accettato di aprire il festival in pieno giorno, la dice lunga sulla grandezza dell’uomo e sul rispetto che il Todays si è guadagnato in cinque anni, in primis da parte dei musicisti. Le speranze di tutti erano che Mould si presentasse con la band ma, quantomeno ai fan più accesi, la sua performance è piaciuta molto anche così. L’ex Hüsker Dü e Sugar in realtà ci ha dato dentro sulla sua sei corde elettriche esattamente allo stesso modo come se dietro di lui ci fosse una sezione ritmica, srotolando accordi alla velocità della luce e facendone fondale per le sue melodie. Come si diceva, concerto per fan, perché solo loro potevano cogliere la finezza di una Never Talking To You Again sì degli Hüskers, ma scritta però dall’amico Grant Hart e pertanto omaggio alla sua memoria, messa tra l’altro in apertura di concerto in mezzo ad altri due pezzi della vecchia e gloriosa band,  Flip Your Wig e I Apologize, prima di ripartire poi con Hoover Dam degli Sugar e per una manciata di pezzi solisti tratti sia da album storici come Workbook e Black Sheets Of Rain, che, anche se in misura minore, dagli ultimi dischi. Forse se avesse provato a riarrangiare i pezzi per una performance in solitaria sarebbe stato più convincente, ma qui ha voluto mettere in mostra l’inossidabile furia punk che lo contraddistingue, ripresa nel finale da altri classici immortali quali Hardly Getting Over It, Something I Leaarned Today, Chartered Trips e Makes No Sense At All. Un’ora secca, seguita da almeno altrettanto tempo dedicata ai fan tra selfie, autografi, abbracci e sorrisi.

Già visti al Primavera qualche mese fa, i Deerhunter anche stasera hanno confermato il loro ottimo stato di salute, certificato inoltre dalla bontà del loro più recente disco, Why Hasn’t Everything Already Disappered?, ampiamente saccheggiato, ma in realtà inserito in una scaletta che ha inglobato pezzi anche dagli altri dischi, in particolar modo Halcyon Digest. Un suono che come sempre mescola melodia pop e rock chitarristico, dilatazioni psichedeliche e distorsioni ottundenti, magistralmente tenute insieme da una sezione ritmica granitica (notevole il batterista Moses Archuleta), perfetta cornice per le invenzioni di quelli che sono i due incontrastati protagonisti della formazione, il cantante e chitarrista Bradford Cox e il chitarrista Lockett Pundt. Il primo è un frontman sui generis ma dall’indubbio carisma, il secondo dietro l’apparente discrezione è fondamentale nella costruzione di un sound sempre fascinoso, che dal vivo si arricchisce di ancor più preganti vibrazioni.

Subito dopo è la volta degli Spiritualized di Jason Pierce, sul palco come sempre un po’ defilato, seduto su una sedia. Protagonisti l’anno scorso, al solito Primavera, di un concerto straordinario con tanto d’orchestra, qui si sono ovviamente presentati nella più succinta formazione classica, tre chitarre, basso, batteria, tastiere e tre coriste. La magniloquente ascensionalità spirituale della loro musica ha comunque colpito lo stesso nel segno, e se un solo difetto dobbiamo trovare sta nel fatto che un’ora sola di concerto è troppo poca per poter godere appieno delle loro ipnotiche e intense ballate. Stando in bilico tra pezzi più recenti e classici, coi primi perfettamente armonizzati ai secondi, gli Spiritualized hanno nuovamente dato vita ai loro Gospel psichedelici e rock, con quei crescendo maestosi che anche quando si profilano attraverso magmatiche colate di tagliente feedback suonano come invocazioni a Dio. In questo senso grandioso il lavoro di John Coxon e Doggen Foster alle chitarre (ovviamente assieme allo stesso Pierce), ma da menzionare sono anche le meravigliose linee di basso del bravissimo Thomas Wayne. Gran finale con il classicissimo spiritual Oh! Happy Day, a chiudere un’ora volata via in un battito di ciglia.

Chiusura di serata affidata infine ai Ride, chiamati a sostituire quei Beirut che hanno cancellato tutto il tour a causa dei problemi di salute del leader Zach Condon. Alla fine la loro presenza rende ancora più compatta e coerente la line up del venerdì, essendo la band di Andy Bell e Mark Gardener da sempre il classico anello di congiunzione tra la distorsione dello shoegaze e la melodia del Britpop. Il loro album più recente è appena uscito e li mostra in forma smagliante, aggiungendo inoltre ulteriore carne al fuoco e qualche novità dal punto di vista sonoro. La scaletta risulta infatti abbastanza varia e con loro pare di fare avanti e indietro nel tempo tra suggestioni sixties, il post punk a cavallo tra settanta e ottanta e il più classico sound inglese dei novanta. Devo essere sincero, non li ho mai considerati dei veri fuoriclasse, però sono una band che sa come tenere il palco e la maggior parte dei loro pezzi sa come stuzzicare l’ascoltatore attraverso un sound classico e cangiante allo stesso tempo, convincente soprattutto nel momento in cui vengono sciorinati brani  storici capaci di far sussultare un pubblico in realtà non troppo partecipe, vedi pezzi quali Seagull, Leave It All Behind e Chelsea Girl. Per il sottoscritto, nell’insieme convincenti.

SABATO
Il primo a salire sul palco oggi, con un look che definire improponibile è poco, è il francese Adam Naas. Di lui avevo ascolticchiato qualcosa on line, rimanendone quantomeno incuriosito. Bella voce, anche se un po’ eccedente in un falsetto fin troppo marcato, il ragazzo, accompagnato da una band solida, ma orientata soprattutto a lasciare spazio alle melodie, ha estratto dal cilindro le canzoni del suo The Love Album, mescolando soul e funk in maniera ruspante, un po’ ricordando certe cose di Prince, un po’ occhieggiando ai classici anni 60, mostrando discreta capacità comunicativa, una buona mano nello scrivere e interpretare le sue canzoni, bisognose giusto di un po’ di coerenza nel sintetizzare le varie anime della sua musica. Non male comunque.

Pessima invece, per il sottoscritto, la performance di One True Pairing, nuovo progetto solista dell’ex Wild Beasts Tom Fleming. A voce e chitarra elettrica, accompagnato da un altro musicista sostanzialmente intento a gestire delle basi pre-registrate e a qualche synth, Fleming è parso il primo a non sembrare convinto delle sue stesse canzoni, eseguite mosciamente, con un tono piatto e con la verve di uno che si stava chiedendo che ci stava a fare là sopra di fronte a quella gente. Difficile persino valutare il livello delle canzoni proposte, provenienti da un album in uscita in questi giorni, tanto scarsa è stata l’esibizione. Decisamente da dimenticare.

A farlo finire definitivamente nell’oblio ci hanno poi pensato subito dopo i più grandi di tutti, i Low.  È la terza volta che li vedo in sei mesi e, sebbene le differenze tra uno show e l’altro siano state minime, il risultato è stato più o meno sempre lo stesso, brividi lungo la schiena e occhi coi lucciconi. Cos’altro posso aggiungere rispetto a quanto detto in passato? L’urticante bellezza dell’ultimo album dal vivo si stempera in un sound più chitarristico, sognante, avvolgente e narcotico. Le voci di Alan Sparhawk e Mimi Parker – quando canta lei pare di sentire gli angeli del paradiso – s’intrecciano in melodie che scioglierebbero l’animo anche delle persone più aride al mondo e quando la chitarra elettrica s’inerpica in mura di distorsioni spesse come piombo, come accade nella coda di Do You Know How To Waltz, lo fa per poi sciogliersi nella malinconia stupefatta di una Lazy irradiante poesia. Come in tutti questi anni, utilizzando sempre mezzi oculatamente parchi, siano riusciti a rimanere sempre così grandi senza nessun passo falso, rimane per certi versi un enigma insondabile. Tra i più grandi di sempre, senza dubbio, cosa recepita pure da un pubblico (tra l’altro come si accennava sopra non solo formato da loro fan) che gli ha tributato applausi così forti e lunghi da metterli quasi in imbarazzo. Anche per loro, come per gli Spiritualized, il rammarico è quello di essersi dovuti accontentare di solo un’ora di show, un’ora che comunque rimarrà impossibile da dimenticare.

A chiudere il programma allo Spazio 211 arriva infine Hozier, cantautore irlandese che si porta appresso qualche sospetto di commercialità, probabilmente a causa del grande successo, anche radiofonico, della sua Take Me To Church. Al di là di qualche scivolamento mainstream qui e là, in realtà Hozier un certo talento lo mette in mostra. Certo, non passerà alla storia come uno dei più originali cantautori contemporanei, ma ha buona mano nello scrivere canzoni capaci di mescolare folk, gospel, soul, blues e rock, poi impregnate di melodia pop, cantate con una voce notevole e messe in scena da una band ricca e variegata, professionalmente ineccepibile, dove in pratica tutti cantano e dove la ricchezza timbrica è garantita dall’ampio ricorso a chitarre, violino, ritmi e tastiere. Insomma, se non ci si abbandona a pregiudizi, un concerto di Hozier può rivelarsi godibile e divertente anche per ascoltatori scafati e abituati a cose magari più raffinate.

La serata non finisca comunque qui. Al vicino Incet, un ex spazio industriale dove il Todays continua durante la notte, si esibiscono infatti i Cinematic Orchestra, maestri del downtempo recentemente tornati sulle scene discografiche dopo una pausa di ben dodici anni. Ovvio considerare imperdibile l’appuntamento e, dopo aver assistito al concerto, devo dire che loro sono stati indubbiamente la più grossa sorpresa del festival, quantomeno tra le cose che ho visto io. Il leader Jason Swinscoe, dietro le sue macchine, dal vivo diventa una sorta di regista per una formazione intenta a dar vita a improvvisazioni di matrice jazz, piuttosto lontane dall’elettronica raffinata dei dischi che, in questa situazione, viene relegata ad una sorta di cornice o complemento. Il sestetto per un’ora e mezza s’inerpica virtuosisticamente in un turbinio di musica senza confini, affastellando partiture complesse e momenti di grande soul music (grazie al contributo dell’eccelsa Heidi Vogel alla voce), virulente escursioni free (grandissimo Tom Chant al sax) e landscapes emozionali. Onestamente non so quanto presto possa capitare la possibilità di rivederli dal vivo, ma se dovessero capitare dalle vostre parti il consiglio è di non perderveli.

Come dicevo, agli interessanti concerti di domenica non ho potuto presenziare. A raccontarvi un po’ tutte le giornate ci sono però qui di seguito le foto di Rodolfo Sassano. L’augurio più grosso è ovviamente quello di ritrovarci a Torino anche l’anno prossimo, per un Todays ancora più bello!

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