
Per quanto prevedibile (anche da tempo, viste le notizie che da anni circolavano sul suo stato di salute), non si è mai pronti all’applauso finale quando qualcuno come Marianne Faithfull lascia definitivamente la scena. È sempre curioso vedere come il rimbalzo mediatico, successivo alla notizia della sua morte, sia stato molto più ampio della sua effettiva popolarità, quanto meno quella artistica. Poi sì, è stata la ragazza di Mick Jagger nella seconda metà degli anni ’60, era bella e di As Tears Go By — uno dei primi brani scritti dalla premiata ditta Jagger-Richards — ha fatto buona parte del resto.
La verità è che oggi perdiamo un’artista a tutto tondo; una che, pur non avendolo mai voluto, è passata dalle copertine patinate dei rotocalchi di quei famosi anni d’oro all’inferno più cupo, cadendo più volte, rialzandosi sempre, non tradendo mai se stessa e la sua umanità, fatta di carne, di amore e bugie. «Lei è una vera», ebbe a dire uno dei tanti artisti baciati dal privilegio di collaborare con Faithfull. Ed è probabilmente questo, solo questo, il motivo per cui Marianne si è ritrovata tra le mani, tra i lunghi capelli lisci e biondi, sul suo corpo che si trasformava negli anni, una fetta impressionante dei più stimati e lodati autori pop, e non solo, degli ultimi decenni.
E se sappiamo degli Stones, magari non sappiamo della dodici corde di Jimmy Page proprio in quel primo, grande successo, e poi ancora Stevie Winwood, Bill Frisell, Hal Willner, Dr. John, Daniel Lanois, Roger Waters, Beck, Blur, Brian Eno; sino ad arrivare, negli ultimi vent’anni, alle collaborazioni con PJ Harvey, Nick Cave e Warren Ellis. E abbiamo lasciato indietro un sacco di nomi.
Di As Tears Go By esistono molte versioni, e naturalmente, la più famosa, e probabilmente quella a cui tutti sono affezionati, è proprio la prima. Siamo nel 1964 e Marianne non ha ancora compiuto diciotto anni: bella canzone, niente da dire, gli stessi Stones la riprenderanno di lì a pochissimo per inciderla a loro nome. Ma quel testo, dolce e malinconico, non sembrava davvero si addicesse a una ragazzina talentuosa con tutta la vita davanti.
E allora inviterei tutti ad ascoltare lo stesso brano riproposto nel suo penultimo album, Negative Capability (2018): qui tutto sembra più chiaro, e chi canta sa bene, lo porta sulla pelle, nel cuore, cosa vuol dire perdere qualche lacrima al tramonto della vita. La produzione artistica di Marianne è stata robusta, frammentata tra fine ’60 e fine ’70 da una lunga pausa in cui lei, lasciatasi con Jagger, si era persa lungo i cammini del mondo e per strada si era anche ritrovata a vivere. Giusto il tempo di scrivere Sister Morphine con gli Stones (paternità come co-autrice riconosciuta solo a posteriori) e la lunga attesa che sfocia in un capolavoro come Broken English (1979): la ragazzina non c’è più da tempo, la voce è quella di un Tom Waits al femminile, roca e sgraziata, eppure vera e feroce. Ne resterà un timbro imprescindibile.
Di lì in poi, molto altro, e quasi niente da scartare, a partire dal successivo Dangerous Acquaintances (1981), per passare a Strange Weather (1987) e Before The Poison (2004), fino a sopraggiungere al già citato, splendido, Negative Capability, dov’è impossibile non soffermarsi su di una canzone indimenticabile come The Gypsy Faerie Queen, scritta a quattro mani con Nick Cave.
Ma anche qui, non si può citare tutto, e allora ricordiamo che anche da attrice Marianne si è fatta valere e conoscere: indimenticabile la sua Irina Palm (2007), film bello e colmo della stessa grazia che l’ha accompagnata per tanti anni. Il suo ultimo lavoro, She Walks In Beauty: solo recitando e con l’aiuto musicale di Warren Ellis, Marianne vi rileggeva le strofe di alcuni grandi poeti del romanticismo britannico. Non un’opera semplice, ma sempre bella, sempre vera. Lei parlò di un sogno realizzato. E noi, citando la canzone di un grande poeta canadese più contemporaneo, scomparso pochi anni fa, la salutiamo sapendo che le stelle brillano anche quando non ci sono più. So long, Marianne.