Libri & Cinema

Vivere il ruolo: Gene Hackman, 1930-2025

Le autorità ne hanno rinvenuto il cadavere nella sua casa di Santa Fe, New Mexico, accanto a quello della seconda moglie, la pianista classica di origine hawaiiana Betsy Arakawa (classe 1961), e del loro cane. Nessuno, al momento in cui scrivo, sospetta alcunché: non ci sono gli elementi per parlare né di atto criminale, né di suicidio pianificato. Il decesso risalirebbe a martedì; il ritrovamento, al pomeriggio di mercoledì scorso. Eugene Allen Hackman, per tutti Gene Hackman, se n’è quindi andato all’età di 95 anni, e sebbene non recitasse più da 21, non occorrevano certo altri ruoli per consolidarne la posizione all’interno del pantheon dei grandi attori americani di sempre: le sue qualità mimetiche, la destrezza nell’entrare dentro ai personaggi con acume e sagacia, così da rendere problematici quelli positivi e dotati di sinistro fascino quelli invece caratterizzati da crudeltà e sadismo, restavano vividi nel cuore e negli occhi di chiunque si fosse imbattuto, spesso anche all’interno di pellicole scadenti, nella sua capacità unica di celare un’impressionante virtuosismo in gesti, sguardi, posture, verbalizzazioni all’insegna della naturalezza e della spontaneità.

Nato a San Bernardino, in quella California di cui aveva ereditato la granitica inclinazione dem (ebbe un singolo sbandamento, per Ronald Reagan, all’inizio degli ’80), all’interno di una famiglia dalle radici anglo-scoto-olandesi, si era arruolato nei marines, aveva studiato giornalismo e infine, dopo varie peripezie e peregrinazioni, aveva deciso di studiare recitazione alla storica Playhouse di Pasadena, Ca., dove aveva stretto amicizia con il collega Dustin Hoffman. Gli esordi, quando gli insegnanti rimproveravano al nostro lo stile dimesso e dissimulatorio per il quale sarebbe invece diventato (giustamente) celebre, non erano stati dei più semplici, ma Hackman non aveva tardato a entrare nei cast di numerose produzioni televisive, per lo più ritagliandosi apparizioni da caratterista, e soprattutto a calcare le assi dei teatri off.

Proprio sui palcoscenici della Broadway più alternativa era stato notato da alcuni impresari di Hollywood e dintorni. Era bastato uno dei cinque film realizzati nel 1967 — la sua terza stagione davanti alla macchina da presa — a fargli ottenere una nomination al premio Oscar come migliore attore non protagonista, e ancora oggi vengono i brividi a pensare quanto la sua parte, in un’opera esplosiva, dirompente e new-wave come Gangster Story (Bonnie & Clyde) di Arthur Penn, fosse già incardinata sui quei binari di apparente medietà e ostentato grigiore nei quali avrebbe sempre celato un formidabile camaleontismo. Attenzione, non la virtù del camaleonte che aderisce ai ruoli secondo i criteri del metodo Stanislavskij, basato sull’immersione psicologica nel personaggio e sulla «trasformazione» in esso da parte degli attori (alla Marlon Brando o Robert De Niro, per intenderci), bensì quella analitica di chi non esita a mettere in campo, ogni volta, un lieve slittamento, un distanziamento grazie al quale ripensare la propria parte passo dopo passo, mostrando agli spettatori uno straordinario talento istrionico senza mai farne, tuttavia, compiaciuto sfoggio.

Per questo Hackman sapeva essere convincente sia nei panni del collerico ex-detenuto di Lo Spaventapasseri (Scarecrow, 1973) di Jerry Schatzberg, uno dei road-movie più amari e tristi del decennio d’appartenenza (con il nostro mattatore assoluto, e straziato dal dolore, nel promettere all’ingenuo Al Pacino, compagno di strada ricoverato in condizioni di irrecuperabile catatonia dopo un collasso nervoso, che avrebbe fatto di tutto per prendersi cura di lui), sia in quelli del magnate del confezionamento carni violento, lenone e criminale di Arma Da Taglio (Prime Cut, 1972), devastante thriller tutto ritmo e furore come non s’usa più: perché anziché annullarsi nei personaggi restava, prima di tutto, Gene Hackman, memorabile benché volutamente di routine, sconvolgente malgrado la costante sensazione di underplaying.

Volendo e dovendo schematizzare, si può ben dire che i ’70 siano stati, per l’attore, gli anni dei grandi e più importanti lungometraggi, costellati da ruoli in perfetta sintonia con le paranoie e i toni crepuscolari del periodo, dal dolente Harry Moseby — investigatore privato con matrimonio in crisi e soluzioni inadeguate — di uno stupendo e sofferto neo-noir come Bersaglio Di Notte (Night Moves, 1975), di nuovo con Penn alla regia, all’Harry Caul operatore nei sistemi di sorveglianza, sassofonista per hobby e infine molecola sfibrata in un ingranaggio molto più grande di lui nel sublime La Conversazione (The Conversation, 1974) di Francis Ford Coppola. Senza dimenticare il rude allevatore, prima maschilista e intrattabile, poi innamoratissimo della sposa trovata in un catalogo, del delicato Una Donna Chiamata Moglie (Zandy’s Bride), diretto nel 1974 dallo svedese Jan Troell, o il divertissement di gran classe del Lex Luthor antagonista di Superman in tre delle quattro pellicole dedicate all’eroe della DC Comics tra il 1978 e il 1987.

Gli anni ’80 furono, invece, quelli del mestiere, degli esercizi di stile comunque dispiegati con carisma e professionalità infallibile: rientrano nella categoria anche pasticci inenarrabili quali Eureka (1983) di Nicolas Roeg, la maldestra celebrazione dell’epos che fu allestita in Fratelli Nella Notte (Uncommon Valor, 1983) di Ted Kotcheff (meglio, rimanendo alle appendici del Vietnam, il teso e sottovalutato Bat*21 [1988] di Peter Markle), e persino Mississippi Burning (1988) di Alan Parker, film rozzamente tagliato con l’accetta nel quale Hackman, alle prese con il ruolo di un federale redneck dai molti lati oscuri, diede però una delle prove più convincenti della propria carriera. Di ben altro spessore, per contro, fu la partecipazione autunnale e ancor più minimalista del solito, ma non per questo meno intensa o vibrante, a Un’Altra Donna (Another Woman, 1988), uno dei capolavori della sfera «bergmaniana» di Woody Allen, mentre fu puramente ricreativo il girato di L’Ultima Luna D’Agosto (Full Moon In Blue Water, 1988), agrodolce commedia di Peter Masterson in cui Hackman, forse perché all’interno dell’incantevole cornice di Seabrook, cittadina costiera galleggiante sul golfo del Texas, sembrò almeno divertirsi un mondo.

Dal 1990 al 2004, infine, ecco la fase alimentare, dignitosa seppur meno convincente, con almeno due prestazioni di livello stellare — il vice procuratore distrettuale in Rischio Totale (Narrow Margin, 1990) del grande e sempre banalizzato Peter Hyams, nonché l’avvocato in contrasto con la figlia, anch’essa dedita alla professione forense, in Conflitto Di Classe (Class Action, 1991) di Michael Apted — di quelle che un tempo giustificavano visioni multiple solo per godere del talento degli attori. Si trattò degli anni in cui Hackman si tolse lo sfizio di dare corpo a irrimediabili villain (“Little” Bill Dagett, sceriffo dai modi spicci e dittatoriali della città di Big Whiskey, Wyoming, in Gli Spietati [Unforgiven, 1992] di Clint Eastwood, gli varrà un secondo Oscar), mantenendo altresì una solennità fuori discussione anche vestendo gli indumenti del patriarca della famiglia dell’omonimo sceriffo nell’indigeribile Wyatt Earp (1994) di Lawrence Kasdan o quelli dello stropicciato attore alle prese con il cancro nell’adorabile Twilight (1998) di Robert Benton. Interpretazioni che servirono più che altro a finanziare l’edificazione e l’arredamento della casa di Santa Fe, considerato un gioiello di design architettonico anche dai maggiori esperti del settore, e tutte le (numerose) iniziative culturali a questa collegate.

A ognuno, data la vastità e l’eclettismo della sua filmografia, il suo Gene Hackman. Il nostro sarà per sempre il piedipiatti newyorchese Jimmy “Popeye” Doyle, cravatta allentata e porkpie storto dalle falde rialzate, alla (vana) ricerca degli organizzatori dell’importazione di un carico di eroina dalla Francia: sbirro senza onori in una metropoli degradata e respingente, immortalata in alcune delle scene d’azione più ossessive mai viste su grande schermo, tra inseguimenti mozzafiato, interni lividi, esterni corrosi dalla ruggine e strade sommerse dall’immondizia per come le vedeva un altro maverick come il compianto William Friedkin, che mandò all’aria ogni convenzione per raccontare l’orrore sporco e dilagante delle metropoli e trovò in Hackman un partner strafottente, consumato, malconcio, fomentato dall’alienazione e dalla psicosi per cui lo vedevamo, nel finale, aggirarsi con pistola carica e nessun riscontro in un labirinto di acciaio, cemento e calcestruzzo abitato solo da fantasmi. Il film era Il Braccio Violento Della Legge (The French Connection, 1971), valse a Friedkin e Hackman il premio Oscar, fece a pezzi le consuetudini del poliziesco (reinventandolo completamente) ed è, ancora oggi, uno dei motivi, non l’unico, in ragione dei quali Gene Hackman, ancorché defunto, vive in eterno tra leggende della settima arte. 

Questo mese

INDICE BUSCADERO

The Junior Bonner Playlist

Backstreets Of Buscadero

Facebook

ADMR Rock Web Radio

La Linea Mason & Dixon blog

Rock Party Show Radio