
YOKO ONO / GREAT LEARNING ORCHESTRA
Selected Recordings From Grapefruit
Karlrecords
L’ensemble avanguardistico svedese traduce in suoni le intuizioni di arte concettuale della più famosa giapponese al mondo: Give Yoko a chance?
Non me la sono sentita di mettere stellette o valutazioni a quest’opera della Great Learning Orchestra, basata appunto su Grapefruit, lo scritto più famoso dell’artista giapponese Yoko Ono, pubblicato nel lontano 1964, quindi in tempi non sospetti data la storia a seguire che tutti conosciamo. Il motivo è semplice: siamo in ambito puramente avant-garde, nelle terre della musica concreta, roba tosta per la quale si deve essere realmente interessati, pena una spesa che, per quel che riguarda i CD e soprattutto i vinili, si è fatta sempre più onerosa per le tasche degli appassionati.
Resta comunque un’opera — Selected Recordings From Grapefruit By Yoko Ono Performed By The Great Learning Orchestra il titolo completo e corretto — interessante, in grado di attrarre anche nella sua apparente impenetrabilità e meglio fruibile se si è in possesso di una pregressa conoscenza del lavoro da cui è tratta. Di Yoko Ono — classe 1933, ora novantaduenne — non sappiamo più granché: costretta da tempo su sedia a rotelle, ha abbandonato la Grande Mela per rifugiarsi in una villa di campagna. La sua ultima incursione in ambito discografico è stata Warzone (2018), riletture di 13 brani presi nel suo vasto repertorio, articolato lungo 40 anni di carriera. L’ancora precedente Take Me To The Land Of Hell (2013) era uno dei migliori capitoli in assoluto della sua discografia e si avvaleva, tra gli altri, della presenza di Nels Cline e Shahazad Ismaily.
La Great Learning Orchestra, di base a Stoccolma, è invece un network molto dinamico di musicisti che si dedicano a musica esplorativa, e ha già collaborato in passato con nomi quali Terry Riley e Gavin Bryars, giusto per citarne due non casuali. A dispetto della same old story che la vuole come la distruttrice della più grande band di sempre (lettura degli eventi viziata da evidente misoginia benché, vista la fama dei Fab Four, destinata a non scomparire mai del tutto), Yoko Ono è stata un’artista d’avanguardia già dalla fine dei ’50 collaboratrice di alcuni dei nomi più importanti della scena alternative e underground, tra essi La Monte Young, John Cage e molti altri.
Da buon Beatle-fan da parecchie decadi, mi sono avvicinato già molto tempo fa all’opera discografica di Yoko Ono; inevitabilmente dalla partnership con John Lennon in poi, per intenderci, ma anche alle sue cose più avanguardistiche. A partire proprio da questo straordinario (a mio modesto parere) libretto dal titolo Grapefruit, di gran lunga la sua opera più conosciuta in questi territori. Da citare ancora il Cut Piece (più o meno della stessa epoca) ovvero la rappresentazione dell’artista che, immobile, viene tagliuzzato dei suoi vestiti dallo spettatore, per creare un rapporto reale e interattivo tra performer e pubblico, e il film Bottoms, è appunto un’interminabile long take sui glutei di anonimi camminatori su tapis roulant… be’, insomma, ci siamo capiti. Ma se queste ultime due opere possono lasciare perplessi i non addetti ai lavori, si può garantire che i primi lavori con Lennon — Unfinished Music No.1 e No.2, Wedding Album — sono addirittura peggio.
Grapefruit è un’altra cosa ed è notevolmente originale, forse il punto più alto dell’opera di Yoko Ono, costituito da brevissimi, spesso folgoranti scritti o affermazioni, accompagnate talvolta da schizzi di disegno. Secondo Yoko, «L’arte viene creata nella nostra mente» e la musica, così come la pittura o i più semplici accadimenti quotidiani, possono diventare arte soverchiando il senso razionale, proiettandone una visione totalmente differente. Se tra i lettori vi sono appassionati delle discipline buddiste e zen, riconosceranno nelle fulminee sentenze di Grapefruit l’approccio sovente controintuitivo di quelle filosofie. Quella di Yoko è ovviamente una provocazione, fatta apposta per lasciarci col dubbio che la futilità dei nostri gesti o l’irrazionalità della nostra immaginazione siano comunque arte, o si possano trasformare in essa.
Solo un esempio, tratto da libro stesso, nel contesto del disco di cui diremo a breve: «conta tutte le stelle di notte, con convinzione. Il brano finisce quando tutti i membri dell’orchestra finiscono di contarle, o quando albeggia. Ciò può essere fatto usando le finestre invece delle stelle». Sono indicazioni «librettistiche» (appunto) per A Piece For Ochestra (Count All the Stars): testimonianza di una visione sfuggente e talvolta illogica, ma assolutamente determinata nel suggerire di usare la propria creatività, sempre, facendo leva sul materiale disponibile.
Il disco ricrea suoni e rumori ambientali, e di oggetti di natura, sino alla voce umana. Quasi un’ora e mezza di musica altra, eccezion fatta per il primo brano (peraltro molto d’atmosfera e perfetto nella dimensione introduttiva), quel Secret Piece composto e proposto esattamente come suggerito da Yoko sul libro, una nota di viola e rumori di uccelli in sottofondo. In City Piece eccoci ai suoni da centro città e marciapiedi, e tenuto conto della parola Piece sempre presente nel titolo dei brani, lascio a voi immaginare cosa si ascolterà in Clock, e ancora Water, Wood e molti altri. Question Piece si discosta perché è una lunga registrazione di voci umane che compongo in effetti un «blocco di domande» in diverse lingue tra cui, oltre inglese e giapponese, anche l’italiano. In altri tempi avrei finito scherzosamente questa recensione, suggerendovi l’acquisto, l’ascolto e la rottamazione, esattamente come la Ono ha fatto, in altri territori, tramite una delle sue illuminazioni, ma non è il caso.
Lascio ai più arditi la voglia e il coraggio di avvicinarsi a questo interessante per quanto ostico lavoro, non senza ricordare che l’ascolto risulterebbe molto più efficace dopo la lettura di Grapefruit, a conti fatti un prerequisito quasi indispensabile.