Speciali

Bob Dylan e i leggendari Basement Tapes

In occasione dell’uscita dell’undicesimo capitolo delle Bootleg Series di Bob Dylan The Basement Tapes Complete, Paolo Carù e Marco Denti scrivono due speciali a proposito delle leggendarie registrazioni di Dylan con The Band a Big Pink nel 1967.
Di seguito gli estratti; gli articoli completi sono su Buscadero n.373 / Dicembre 2014.


Bob Dylan & The Band: la leggenda dei Basement Tapes

di Paolo Carù

Il 1975 è stato un anno particolarmente fecondo per Bob Dylan. Il nostro veniva da un trionfale tour con The Band, in seguito alla pubblicazione di Planet Waves, documentato poi nel doppio dal vivo Before the Flood. Ma il meglio doveva venire proprio nel 1975, che si apriva in modo trionfale con la pubblicazione di Blood on the Tracks, uno dei suoi dischi più belli di sempre. Proprio nello stesso anno vedevano finalmente la luce, in forma di doppio LP, i fantomatici Basement Tapes. Una storia a parte.

THE BASEMENT TAPES
Si tratta di un doppio LP, pubblicato dalla Columbia nell’estate del 1975. Tutte le 16 canzoni di Dylan che appaiono nel doppio sono state registrate nel 1967 in tre sessioni diverse. Le prime a casa di Dylan, a Byrdcliffe, quindi nella famosa Big Pink di Woodstock, dove abitavano membri di The Band, per chiudere con alcune canzoni messe su nastro a Wittenberg Road. Mentre le otto canzoni di The Band (24 in totale i brani che appaiono sul doppio LP) sono state incise in varie occasioni tra il 1967 ed il 1975.
La storia si racconta in questo modo. Dopo il suo incidente motociclistico del 29 Luglio 1966, avvenuto vicino a Woodstock, Dylan torna al lavoro e chiama i membri di The Band (cioè The Hawks, con cui aveva fatto il mitico tour del 1966 in Inghilterra, quello che aveva dato luogo al famoso concerto della Royal Albert Hall, documentato poi nel Bootleg Series Vol 4: Bob Dylan Live 1966, The Royal Albert Hall Concert). La sua intenzione è quella di incidere, di tornare in azione, sperimentando nuovi suoni su brani antichi. In quel periodo Bob è fortemente influenzato da The Anthology of American Folk Music, il famoso cofanetto di 6 LP (poi in sei CD) messo assieme dall’eccentrico musicologo e ricercatore Harry Smith, il disco che è stato fonte di ispirazione per moltissimi musicisti, non solo americani. Le sessions, poi chiamate The Basement Tapes, sono servite a Dylan per gettare la basi del suo disco seguente, lo splendido John Wesley Harding, mentre The Band stava costruendo la propria identità e, solo un anno dopo, avrebbe pubblicato un capolavoro: Music From Big Pink.

LA GENESI DEI BASEMENT TAPES
Tutto nasce dopo l’incidente motociclistico del 1966. Dylan, mentre è in ospedale, visiona il documentario che D.A. Pennebaker, dopo Don’t Look Back, stava preparando per la televisione, ma non è assolutamente soddisfatto. Così riedita il materiale in un film surrealista che si intitola Eat The Document. Chiede aiuto a Robbie Robertsone, in seguito, chiama Rick Danko, Richard Manuel e Garth Hudson a Woodstock per girare altre scene. Per ammazzare il tempo poi i musicisti si ritrovano a casa di Dylan (nella mitica Red Room) prima e a Woodstock dopo, e incidono una serie di sessions informali. Nei primi mesi vengono registrate delle covers, brani di altri o tradizionali, canzoni piene di fascino come Hills of Mexico, Bonnie Ship The Diamond, Johnny Todd, Come All Ye Fair And Tender Ladies, Going Down The Road Feelin’ Bad, Bells of Rhymney, Cool Water, Ain’t No More Cane On The Brazos, Ol’ Roison The Beau. Poi ci sono brani di Hank Williams, Eric Von Schmidt, Johnny Cash, John Lee Hooker, Ian Tyson, Hank Snow, Curtis Mayfield etc.
In seguito Dylan propone canzoni nuove. Infatti, durante le sessions, Dylan ricomincia a scrivere. Vengono incise dieci canzoni al giorno, anche di più, e Dylan ne costruisce alcune mentre prova a suonarle. Nel giro di qualche mese Bob mette sul piatto almeno trenta canzoni nuove, alcune diventeranno poi famosissime: I Shall Be Released, You Ain’t Going Nowhere, Mighty Quinn, This Wheel’s on Fire, Going to Acapulco, Million Dollar Bash, solo per citarne qualcuna. Ma il fulcro di queste registrazioni, anche se poi Dylan ne ha depositate alcune, rimane nel limbo. E’ vero che, tramite Albert Grossman, manager di Dylan in quel periodo, alcune vengono poi utilizzate da altri musicisti, e diventano dei successi. E’ il caso di Quinn The Eskimo (The Mighty Queen) che diventa un hit mondiale grazie ai Manfred Mann, o Too Much of Nothing, interpretata da Peter, Paul and Mary. Ma non solo le sole. Il duo folk canadese Ian & Sylvia, sempre del management di Grossman, incide Tears of Rage, This Wheel’s on Fire e Mighty Quinn. I Byrds registrano You Ain’t Goin’ Nowhere e Nothing Was Delivered, mentre This Wheel’s on Fire diventa un successo in Inghilterra grazie a Brian Auger e Julie Driscoll and The Trinity.
La notizia della immensa mole di materiale inedito registrata da Dylan e The Band comincia a circolare e Rolling Stone dedica al fatto un lungo articolo, chiedendosi quando verranno mai pubblicate quelle registrazioni. La risposta arriva otto anni dopo, il 26 Giugno 1975, quando la Columbia pubblica ufficialmente un doppio LP, The Basement Tapes. Compilato personalmente da Robbie Robertson, il doppio contiene 16 canzoni di Dylan ed 8 di The Band. L’ album riceve lodi sperticate e critiche entusiaste da tutte le riviste mondiali.
Queste la canzoni contenute.
Side 1: Odds and Ends (Dylan, versione 2), Orange Juice Blues (The Band), Million Dollar Bash (Dylan, versione 2), Yazoo Street Scandal (The Band), Goin’ To Acapulco (Dylan), Katies’ Been Gone (The Band).
Side 2: Lo and Behold (Dylan, versione 2), Bessie Smith (The Band), Clothesline Saga (Dylan, versione 1), Apple Sucking Tree (Dylan, versione 1), Please Mr. Henry (Dylan, versione 2), Tears of Rage (Dylan, versione 3)
Side 3: Too Much of Nothing (Dylan, versione 1), Yeah! Heavy and a Bottle of Bread (Dylan, versione 2), Ain’t No More Cane (Tradizionale, The Band), Crash on the Levee, Down in The Flood (Dylan, versione 2), Ruben Remus (The Band), Tiny Montgomery (Dylan)
Side 4: You Ain’t Going Nowhere (Dylan, versione 2), Don’t Ya Tell Henry (Dylan), Nothing Was Delivered (Dylan, versione 1), Open The Door Homer (Dylan, versione 1), Long Distance Operator (Dylan), This Wheel’s on Fire (Dylan & Danko).


Splendid Isolation: Dylan, i Basement Tapes e un’idea di America

di Marco Denti

Quando Henry David Thoreau passò una notte del 1846 in prigione per la sua obiezione fiscale contro lo schiavismo e la guerra in Messico, l’amico Ralph Waldo Emerson gli fece visita e gli chiese: “Henry, cosa fai qui dentro?”. Thoreau gli rispose, senza pensarci un attimo: “Waldo, cosa fai là fuori?”.
L’aneddoto serve a ricordare che c’è sempre un dentro e un fuori, che c’è sempre l’opportunità di scegliere, che già la scelta è un’opportunità. Poco più di un secolo dopo, lo stesso dialogo era perfetto anche per Bob Dylan & The Band chiusi a Big Pink e il resto del mondo. La loro trasferta era volontaria, d’accordo, ma anche Thoreau poi si rintanò nei boschi di Walden. Un ritorno all’essenzialità, alla solitudine, all’isolamento sublime dell’artista: con la confusione che ha in testa, non gli serve altro, e ogni motivo è valido, compresa la spontanea e gratuita bellezza della “vita nei boschi”. Prima o poi, il passo è obbligato perché come diceva Thoreau “solo quando ci siamo perduti, in altre parole, solo quando abbiamo perduto il mondo, cominciamo a trovare noi stessi, e a capire dove siamo, e l’infinita ampiezza delle nostre relazioni”.
Chissà se a Big Pink conoscevano Walden. Forse volevano soltanto stare insieme, appartati e fuori dalla mappa, per suonare e dare alla musica ciò che è della musica, il tempo. Solo che uno era Bob Dylan e gli altri, The Band.

LIFE IN THE WOODS
Già dal 1965 Dylan era “molto, molto fuori posto”, come dicevano i supervisori di Adrian Cronauer alias Robin Williams (indimenticabile) in Good Morning Vietnam e la scelta di ritirarsi a Woodstock non era proprio del tutto libera. A portarlo lì, non era stato soltanto l’incidente motociclistico (grave o meno che fosse) ma una stratificazione di incombenze, ostacoli, scelte e situazioni che consigliavano una deviazione di percorso. C’era la famiglia (come sosterrà con decisione Dylan molti anni dopo, nelle sue Chronicles) e c’erano gli strascichi di un tour sempre in prima linea, c’erano i dylanologi e i folli, i fans e i maniaci. C’era un manager ingombrante e c’erano i contratti, quelli in scadenza e quelli che sarebbero scaduti, primo tra tutti proprio quello con Albert Grossman che, infatti, stava in guardia.
Sparire per un po’ era una scelta saggia, anche perché, come diceva Ellen Willis, “Dylan aveva bisogno di tempo per ripopolare la propria immaginazione”. Più di tutto era quello in cima ad un coacervo di motivi che rendevano la svolta più obbligata che necessaria, ma se da un punto di vista musicale Dylan restava ancorato alle radici piuttosto che inseguire le traiettorie psichedeliche, da un’altra angolazione aveva percepito il futuro, perché le rock’n’roll star dovevano dare di più, fino al sacrificio estremo, come sarebbe stato chiaro da lì a un paio d’anni. Lui era il primo della lista e le avvisaglie, tra i songwriter e i folksinger, si erano avute con Peter La Farge che era morto nell’autunno del 1965 e poi Paul Clayton e Richard Fariña nella primavera del 1966 (e un giorno bisognerà raccontare anche le loro, di storie). Il pericolo era nell’aria, non a caso Albert Grossman inserì una clausola nel contratto di Janis Joplin che gli riconosceva un risarcimento di centomila dollari (circa una dozzina di milioni, al cambio attuale) in caso di decesso per droghe e/o alcol e/o simili intemperie. Questo il personaggio, questi i tempi, e la necessità di fuggire a un destino segnato era una spinta più che sufficiente a rintanarsi sotto il muschio di Big Pink.
Robert Shelton è il biografo che, primo fra tutti, ha ricostruito al meglio il percorso dei Basement Tapes ed è stato il più lucido, a suo tempo: “I particolari sull’incidente di motocicletta occorso a Dylan il 29 luglio 1966 non furono facili da accertare. Si scrisse dappertutto che Dylan aveva rischiato di morire, ma sembra più probabile che questa disavventura gli abbia invece salvato la vita”. Ci vorrà del tempo perché Dylan sia esplicito sulle motivazioni di quell’esilio, più o meno volontario.
Un piccolo salto avanti nel tempo e siamo già nel 1984 quando diceva a Kurt Loder: “In quel periodo vivevo a Woodstock e avevo un alto grado di notorietà senza fare niente; poi ho avuto quell’incidente in motocicletta che mi ha messo fuori gioco. Quando mi sono svegliato e ho ripreso i sensi mi sono reso conto che stavo lavorando per tutte quelle sanguisughe. E non volevo farlo. In più avevo una famiglia e volevo proprio vedere i miei figli. Mi ero anche reso conto che stavo rappresentando moltissime cose di cui non sapevo niente”. La sua è la versione che conta, in fondo, poi, come ricordava Robbie Robertson, i Basement Tapes e il loro parente prossimo, Music From Big Pink, erano, come spesso accade, frutto di un fortunato incrocio tra necessità e creatività. La Band stava cercando un posto dove incidere che non fosse a New York, ma abbastanza vicino, che non costasse troppo e che non avesse troppa gente intorno a disturbare, o almeno questo era il volere di Albert Grossman. Bisogna tenere presente che Albert Grossman era un manager che ringhiava, invece di parlare, o così lo presentava Bob Dylan nelle sue Chronicles, quindi, attenzione al rock’n’roll animal.
Nell’inverno del 1967, quando trovarono Big Pink e scesero in cantina, un tecnico del suono, amico di Robbie Robertson, visionò il posto e, tra il pavimento e le pareti di cemento e la caldaia di metallo piazzata lì in mezzo, emise il suo verdetto, sotto il profilo acustico: un disastro. Poi arrivò Bob Dylan e ne rimase incantato. Non è difficile capire perché. Se Henry Miller era affascinato da Big Sur, il leggendario caposaldo della Beat Generation, e stiamo parlando di poco più di una capanna incastrata tra le rocce davanti all’oceano, è pacifico che Dylan sia rimasto incantato da una casupola nella wilderness dello stato di New York a West Saugerties, lungo Parnassus Lane, un cul de sac in mezzo ai boschi. Forse è la semplicità, la riservatezza, un certo minimalismo verso il silenzio che Bob Dylan, ricordava così, ancora su Chronicles, cercava per definire il suo, di tempo: “Il mio destino percorreva la sua strada, qualunque cosa la vita gli portasse, e non aveva niente a che fare con l’essere simbolo di una qualche forma di civiltà. Restare fedeli a se stessi era l’unico imperativo. Io ero un cowboy, non un pifferaio magico”. Non esistono tanti posti così, anche se la zona ai piedi delle Catskills è piuttosto interessante, visto che a un’ora e mezzo di macchina verso nord, lungo la Adirondack Highway, c’è Yaddo, a Sarasota Springs (sempre nello stato di New York), famosa oasi per scrittori, amata tra gli altri, da Flannery O’Connor. Sempre sulla numero 87, ma a sud, rispetto a Big Pink, c’è una Walden, ma è solo una coincidenza perchè sappiamo tutti che la vera Walden è a Concord, Massachussets.
L’equazione cominciava a diventare complicata, ma al suo interno c’era la soluzione: la Band era stata già pagata per un altro tour e Dylan non poteva andarci per le note ragioni seguite all’incidente motociclistico (ma anche perché era reduce da insulti come traditore e bugiardo), la Band doveva incidere il suo materiale e Dylan doveva buttare giù delle canzoni da destinare ad altri, a partire dai Byrds. Ad Albert Grossman forse non parve vero di poter avere tutti i musicisti nello stesso posto a lavorare senza limiti d’orario e senza discografici o rappresentanti del sindacato a fissare l’orologio. Big Pink era la soluzione. L’acustica, come il paradiso, poteva attendere. Quando tornano i conti, funziona tutto.

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