Foto © Enzo Curelli

In Concert

DeWolff live a Milano, 17/11/2023

Sei Paesi e ad oggi ancora 45 concerti da portare in scena. Va bene essere giovani ma grinta e volontà per terminare un tour e raggiungere il meritato momento di respiro, devono essere accompagnate da un paio di cose per donar valore al proprio mestiere: fantasia e potere d’intesa.

Ormai da anni in pista, i DeWolff strombazzano sui palchi di un’Europa non improvvisamente amante di partite come soul, blues, rock alternativo e le più strane mescole presenti sulla scena, e a cui piace mettersi in ascolto di nuove proposte o tradizione a patto che la qualità sia garantita. Straordinariamente versatile, il combo Southern psych/soul/rock/blues di questi tre ragazzi del Delta Olandese, i fratelli van de Poel, che vede Pablo alla chitarra e voce e Luka alla batteria e seconda voce, assieme all’uomo con la più bella zazzera del rock, Robin Piso, a martellare l’Hammond e infarcire i cori, ha reinserito nel menù qualche cosa di effettivamente stuzzicante.

Distintisi con il loro nuovo album, Love, Death & In Between, insieme alla sezione fiati del power-trio Broken Brass, al percussionista Marnix Wilmink, all’ex bassista/cantante dei Dawn Brothers, Levi Vis, e alle sincronizzate voci di supporto delle Delectable DeWolff Dolls (ironicamente così soprannominate per i loro estroversi look da palco)…. i dieci musicisti hanno riportato alla memoria, sui set olandesi, ricordi dell’Asylum Choir di Leon Russell e regalato spettacoli straordinari. Il rammarico, per non averli visti a formazione piena qui in Italia, non si può nascondere, ma ci sia accontenta pur di apprezzare novità e talento anche da noi.

Apertura offerta da una band che di “nostrano” ha molto: da Milano, attivi dal 2018 e un suono caratteristico, condensato in confini punk per la potenza espressiva, ma anche in figurali reminiscenze dei primisimi Red Hot Chili Peppers, ascendenti musicali assemblati da esperienze e provenienze differenti. Daniele La Canna, chitarra e voce principale, Stefano Vitanza, basso e voce e Davide Gagliardi, drums, sono gli Scurbats, e danno corpo a un breve show fra distorsioni di chitarre, bassi potenti e una batteria tanto cattiva quanto essenziale, continuando a ringraziare per aver avuto spazio in quel giorno, in quel luogo e in quell’occasione, e richiamando applausi per la band che stava per impossessarsi della platea meneghina.

Un cambio set di quelli troppo lunghi, a mio avviso, mai sopportati… salissero sul palco in dieci (appunto) sarebbe una più che buona giustificazione, ma vai a capire le dinamiche di set, forse solo un piccolo ritardo per una cena protrattasi oltre le previsioni. Ad ogni modo un Legend così pieno in poche situazioni lo si è visto: facce fotografate negli ambienti soliti, poche, giovani e meno giovani che conoscono la band, olandesi trapiantati per studio o per lavoro e addetti ai lavori quasi nessuno.

Foto © Enzo Curelli

Il percorso dei ragazzi è qualcosa di stellare: dall’album Thrust del 2018, attraverso i supremi Tascam Tapes e Wolffpack, alle esibizioni dal vivo con la Metropole Orkest, la loro collaborazione soul Double Cream con i Dawn Brothers e lo slot di supporto del tour europeo del 2022 con i Black Crowes, presentandosi al mercato musicale come qualche cosa di diverso, grandi intenzioni e perdutamente innamorati del rock americano anni sessanta, anni settanta, e di tutto quello che ha miscelato le sontuose idee di quel periodo.

Una voce, Pablo, armonica e versatile, e una chitarra che sa assumere diverse identità: suoni, influenze, melodie da solista d’esclusiva Gibson. Niente basso, tutto fanno quei tappeti d’organo esuberanti, Piso accarezza o maltratta le sue chiavi Hammond a seconda della situazione, aggiungendo consistenza e calore o attaccando la consolle come se volesse far volare dalle scale l’intera attrezzatura… al limite in taluni frangenti, ma dalle dinamiche rodate e gestendo con perizia i crescendo tumultuosi.

Una macchina che appare rodatissima dal vivo, solo un pezzo fuori tema, Tried Of Loving You, andando a divagare in territori ambigui e tirando la scenetta anche troppo per le lunghe, per il resto (a parte le gigionerie e l’atteggiamento un po’ ruffiano del cantante) una buona mescola tra gli avvincenti riff in apertura con Night Train e il soul morbido di Will O’The Wisp, il funk rock di Double Crossing Man e le autorevolezze Southern di R U My Savior, distribuite tra overdrive e dialoghi feroci organo/chitarra, con la fascinosa voce di fratello Luka a dipingerne le sfumature, fino all’impavida Rosita: un’immensa suite di oltre sedici minuti che aggancia il mood americano voci, stacchi, ripartenze e incisi, molto ben assorbito da una formazione che l’America l’ha solo vista e ascoltata da lontano.

A tratti autoindulgenti, ma chi non lo è tra coloro che si azzardano a suonare questa roba? I volumi alti non hanno aiutato certamente a distinguer le finezze, e che ai tre ragazzi piaccia anche picchiare come dei dannati era ben evidente, così come fare gli smargiassi e i vissuti rockettari, ma di argomenti in pista ne hanno portati, a cominciare da quell’attitudine briosa e spudorata di cui il rock ha bisogno ancora. 

Alla prossima, full band magari, e che non ci tocchi inseguirli in giro per l’Europa.

Foto © Enzo Curelli

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