Recensioni

Duke Garwood, Heavy Love

garwoodDUKE GARWOOD
Heavy Love
Heavenly Recordings
***½

Il patto con il diavolo, un giro d’accordi di dodici battute, uno stato d’animo o comunque lo si voglia definire: di certo il blues non è un suono preciso per Duke Garwood, piuttosto l’elettrizzante sinfonia che potrebbe affiorare da una session tra Robert Johnson, Harry Partch e la No Neck Blues Band, o almeno è questa la sensazione che si sprigiona dall’ascolto del bulboso amalgama di primitivismo tribale, mefistofeliche melodie, vocalizzi sciamanici e avanguardia free, che fino ad oggi ha riempito i suoi primi quattro dischi di studio.
Benchè la sua musica paia echeggiare dalle pagine mai scritte della storia del Delta blues, quelle più misteriose ed ancestrali, Garwood vive a Londra ed è appunto nelle backstreets dell’underground britannico che inizia il suo percorso: il suo nome comincia a circolare nei primi anni ‘00, quando scontorna di sfumature il furioso garageblues degli Archie Bronson Outfit, un impegno che lo conduce ad una timida carriera solista fatta di lavori fumosi ed umorali come Holy Week del ‘05, Emerald Palace del ‘06, The Sand That Falls del ‘09 e Dreamboatsafari del ‘11, a cui si aggiunge una manciata di singoli ed EP. Nel ‘12 Mark Lanegan pubblica il tanto atteso Blues Funeral e quando lo porta in tour, c’è Garwood ad aprire le date europee: concerto dopo concerto, i due sviluppano una prevedibile sintonia, probabilmente rinsaldata dalla passione condivisa per il lato oscuro del rock, un comune sentire da cui prendono forma il progetto a quattro mani Black Pudding del ‘13 e la canzone I Am The Wolf, uno dei rari episodi degni di memoria di Phantom Radio, l’ultima, discutibile opera di Lanegan.
E’ proprio da quella canzone che paiono sprigionarsi le atmosfere di Heavy Love, il nuovo album di studio di Duke Garwood, un disco fatto di ballate sospese tra blues spettrale e folk apocalittico, ad oggi il lavoro più lirico ed organico dell’intera discografia del cantautore inglese. A momenti affiora l’intensità da brividi del Lanegan degli esordi come in Burning Seas, dove pare di ascoltare il canto di un uomo in precario equilibrio su un abisso di dolore; o lo sciamanismo di Jim Morrison nelle tribali pulsazioni voodoo di Snake Man; oppure il fantasma di Townes Van Zandt nella polverosa crudezza di Sweet Wine; ma comunque Garwood sembra aver trovato una nuova identità di cantante e musicista, abbandonando il borbottio sconnesso e le bizzarre alchimie sonore dei dischi precedenti, a favore di un’approccio melodico quantomai ispirato ed intenso e di una forma canzone più compiuta, trasformando in magia il duetto con Jehnny Beth delle Savages nella riverberata Disco Lights; intrecciando oscuri umori blues e scintillanti chitarre folk in una fantastica Suppertime in Hell; vagando tra le ombre di un blues desertico e notturno nella splendida Sometimes; spremendo espressività dalle basiche armonie acustiche di Roses; o distillando malinconia in una nebulosa Hawaiian Death Song. Forse grazie all’influenza esercitata da un cantante come Lanegan, tutti i primordiali graffiti che riempiono il passato di Duke Garwood, diventano ora un’intera, ricercatissima gamma di affascinanti chiaroscuri in Heavy Love: ad oggi il capolavoro dell’eccentrico cantautore e chitarrista britannico.

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