Foto: Luca Muffatti

In Concert

Francesco Piu live a Besozzo (VA), 30/11/2019

Dopo la data zero allo spazio Teatro 89 di metà ottobre, un paio di presentazioni nella sua Sardegna e una gita nel Nord Italia appena cominciata, il Crossing Tour di Francesco Piu approda anche in terra varesina, portando in giro per il Bel Paese il blues di Robert Johnson, attraverso la promozione del nuovo album, e quel sound “croccante” che il musicista isolano distribuisce alle platee fin dagli esordi di carriera. Tocca al teatro Duse di Besozzo, sempre pronto ad aprire le porte a proposte musicali di livello, ospitare il bluesman e il suo trio, grazie a una squadra che ben si guarda da contare numeri e ricavi a discapito della qualità. 

Un blues speziato, come lo chiama il frontman di Sassari e un roots rock da prima linea come arriva invece alle orecchie e nella pancia di chi scrive. Francesco e i suoi compagni suonano come fossero la reincarnazione di un energico power trio catapultato nel 2019 direttamente dagli anni settanta. La batteria di Silvio Centamore e il basso del “cugino milanese” Mauro Piu non giocano certo al risparmio, e mettono in piedi una sezione ritmica che viaggia tenendo alto il tiro per tutta la serata, ma che sa di cosa parlare quando si tratta di abbassare le frequenze. Lo “Steve Gadd di Bulciago,” posseduto da una divinità indù a quattro braccia, percuote lo djembè con una mano ed impugna la bacchetta con l’altra, picchia sulle pelli dei tom a mani nude, balocca con le dita sulle calebasse, tiene il tempo con la darbuka e svolge il suo lavoro da batterista con una sincronia che rasenta la perfezione, mentre il “Tony Levin di via Paolo Sarpi” porta il ritmo, il funk, o il drive che dir si voglia, dove meglio crede.

Si comincia “da lontano”,  con una Down On My Knees che richiama i sapori del Mississippi oltre che gli umori di un disco nato dalle terre sarde, ma si prende il via ingranando subito la quarta e infilando un scaletta che di groove è grondante da ogni parte.  Una set list che si infiamma sul bollente repertorio dell’ultimo disco, sulla sensualità di Come On In My Kitchen e sull’energia di Stones In My Passway, che anima gli spiriti ardenti del Sud sulle distorsioni e i ritmi sincopati di Me And The Devil e scivola sinuosa sullo slide di Stop Breaking Down.  Suoni sciolti dal calore delle fiamme, ma anche morbide danze condotte con stile, perché così è la musica di Piu: capace di trasportare in direzione degli inferi e allo stesso modo vicino all’orizzonte, basta chiudere gli occhi sulla dolcezza di From For Till To Late o sul suono delicato della chitarra che nella splendida Mother arriva soffice come onde sulla spiaggia. La voce di Francesco aiuta, altrochè se aiuta…. Dotato di una padronanza delle tonalità che dal vivo non appartiene a molti fortunati e di una capacità espressiva che fa vivere ogni pezzo, il bluesman sardo si adatta all’anima del brano, interpretando il più sporco dei blues e la più languida delle ballate con una versatilità invidiabile.

Ottimo anche il suono, sposato con l’acustica del teatro grazie a un impeccabile Luca Martegani al mixer, che sostiene il risoluto sound della band accentuandone l’attrattiva. Wah wah, distorsioni, partenze con delay che impostano la chitarra di Piu verso cavalcate alla Derek Trucks, effetti che diventano fondamentali in una performance come quella di sabato sera: dalle voci fuori campo sulle provocazioni dell’ipnotica Black Woman, agli scratch grattati sui ritmi funk di In The Cage, dai psd elettronici del kit di Centamore alle fantasie di Francesco con i pedali.

Piu è attualmente uno fra i chitarristi italiani più appassionanti, quando parliamo di inventiva, gusto e conduzione del gioco. Dolce e rabbioso, sapiente e irruento, equilibrato e incisivo, scava tra i suoni sapendo dove porre gli accenti, non senza una padronanza della tecnica di tutto rispetto, con un gran lavoro della mano destra e uno slide figlio dell’immenso sound alla Duane Allman. Centamore è uno dei batteristi più poliedrici e interessanti sulla scena. Oltre alla dote di un’intima conoscenza delle battute, ha una sensibilità del ritmo incredibile: quando gli shakers arrivano ad addolcire il suono di Love In Vain assieme al garbo della B&G di Francesco, si galleggia nella dimensione dell’essenziale pur conservandola meravigliosamente godibile. Il feeling fra i tre è avvertibile da ogni lato della platea e a corredo delle emozioni che hanno accompagnano la serata fino a quel momento, mancano solo la sensualità di una versione zeppeliana di Trouble So Hard, con le sue ritmiche corpose e ruvide, e il messaggio lanciato attraverso una Why Can’t We Live Togheter di Timmy Thomas, con quell’accento reggae che vira in un potente rock blues a ricordare i migliori Muli, doveroso tris di encore, per dare completezza a una serata satura di buona musica e tanta buona volontà, e la band saluta con una I Wanna Take Your Highway (Sly and The Family Stone) vecchio cavallo di battaglia, ringraziando con la speranza che le migliori cose prodotte in casa Italia possano arrivare fin dove ci sia un pubblico pronto ad apprezzarle, perché, in casi come questo, non occorre andare a cercare il “groove giusto” in terre tanto lontane.

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