Foto © Lino Brunetti

In Concert

Goat (JP) live a Torino, 23/11/2023

Alcuni anni fa, quando anche uno con uno stipendio normale poteva prendere, quasi a cuor leggero, l’idea di farsi una vacanza dall’altra parte del globo, me ne andai a fare un paio di settimane in Giappone. Ora, non dico che fosse proprio in cima alla lista, ma tra le cose che volevo fare in quella vacanza, c’era pure quella di procurarmi gli introvabilissimi album dei Goat, band giapponese che nulla ha a che spartire con i decisamente più noti rockers svedesi dallo stesso nome, dei quali avevo letto a più riprese e che, in base a quello che ero riuscito a sentire, m’avevano incuriosito notevolmente. In Giappone i dischi si vendono ancora e pertanto i negozi dove comprarli non mancano: a Tokyo ne girai diversi, tra cui lo spettacolare Disc Union di Shinjuku, lì disposto su sei piani di felicità, ma in realtà con diverse sedi sparpagliate in giro per la città, ma nulla, persino lì sti Goat parevano essere dei perfetti sconosciuti. Poi, nel posto dove meno mi sarei aspettato di trovarli, ovvero da Tower Records (sì, perché in Giappone Tower Records esiste ancora), sia pur con qualche tentennamento da parte del commesso, una copia di Rhythm And Sound, il loro secondo album, riuscii ad accaperrarmela.

Se vi racconto tutto ciò, non è tanto per rendervi partecipi di come passo le mie vacanze o dei fatti miei, cose sulla quali sareste legittimamente tenuti ad esclamare “e chi se ne frega!”, quanto più per sottolineare quanto i Goat in questione siano, quantomeno apparentemente, una band davvero per pochi. Vi basti pensare che, qualche anno fa, quando suonarono a Le Guess Who?, un festival dove il pubblico non è certo composto da sprovveduti, la maggior parte della gente era lì in attesa dei Goat svedesi e, allo stesso modo, i nostri eroi furono protagonisti di un gigantesco equivoco quando vennero ingaggiati per un tour da un promoter europeo, convinto però di aver preso contatto con una band greca death metal dallo stesso nome.

È quindi con incredibile piacere e, diciamocelo, anche con un po’ di stupore che, quando arrivo al Magazzino sul Po, zona Murazzi a Torino, dove in programma c’è un loro concerto, scopro che questo è sold out. Il locale non è grandissimo, ovviamente, ma 200 persone stipate in un club per una band che, come dicevamo, sta completamente ai margini del mercato musicale attuale, i cui dischi sono quasi impossibili da trovare, se non a prezzo di un impegno vecchia maniera, e che neppure si trovano su Spotify e affini (i primi due però li potete almeno sentire su Bandcamp e non devo essere io a spiegarvi cosa sia Soulseek), non sono affatto da trascurare. 

Il merito è probabilmente di TUM, collettivo culturale responsabile anche dell’organizzazione del bellissimo festival Jazz Is Dead, che di eventi ne mette in programma diversi, coniugando ricerca e altissima qualità e che, evidentemente, lavora benissimo sul territorio, tanto da essersi conquistato uno zoccolo duro di appassionati che li segue nelle loro scorribande musicali, per quanto ardite queste possano essere.

Per quello che riguarda la performance dei Goat, che per evitare i problemi avuti in passato di cui dicevamo sopra, ora, quando suonano in Occidente, aggiungono un bel (JP) al loro nome, non si può dire altro se non che è stata stratosferica, quasi da non credere ai propri occhi e alle proprie orecchie. La band – formata dal chitarrista, percussionista e compositore della formazione Koshiro Hino, dal bassista Atsumi Tagami, dal sassofonista Akihiko Ando e dai batteristi Takafumi Okada e Rai Tateishi, quest’ultimo anche ai flauti – era qui a presentare il loro nuovissimo album, Joy In Fear, arrivato a otto anni di distanza dal precedente e che, a ulteriore conferma di tutto quanto detto sopra, per essere comprato in formato fisico necessita il recarsi ai loro concerti.

Difficile definire in maniera univoca quello che suonano: a tratti potreste essere indotti a pensare che si tratti di musica elettronica, ma allo stesso tempo dentro ci sono indubbiamente reminiscenze Kraut versante Can, scampoli di jazz sperimentale, il minimalismo più ipnotico offerto in versante avant rock. Quello che è certo è che il loro è un suono quasi esclusivamente basato sull’elemento ritmico, con pochissime o nulle concessioni alla melodia. Tutto s’appoggia ovviamente alle figure geometriche messe a punto dai due batteristi, ma anche gli altri tre strumenti vengono usati in funzione puramente ritmica.

Quello che impressiona maggiormente è la precisione assoluta dei loro incastri, raggiunta probabilmente con una pratica spietata e intensa. Lo si intuisce dalla concentrazione con la quale suonano, quasi senza guardarsi tra loro e apparentemente inconsapevoli di avere un pubblico di fronte, di fatto ignorato per tutta la durata dello show e salutato con un sorriso giusto alla fine, quando Koshiro Hino, indotto a dover tornare sul palco per via dell’ovazione del pubblico, si è visto costretto ad ammettere che non avevano altri pezzi pronti da suonare oltre a quelli eseguiti.

Il nuovo materiale, cosa poi confermata dall’ascolto di Joy In Fear una volta tornato a casa, è leggermente meno radicale rispetto a quello del passato, nel senso che prevede anche qualche piccola deviazione dalla mera materializzazione di costrutti ritmici. Il sax di Akihiko Anda, normalmente intento a creare squittii strozzati e sbuffi ritmici, tra l’altro creati dall’inserimento di una bottiglietta d’acqua all’interno della campana del suo strumento e dall’utilizzo di una pedaliera d’effetti, a volte parte con fendenti dissonanti al confine col free jazz; Koshiro Hino in un pezzo molla la chitarra per creare delle risonanze percuotendo una campana tibetana e Rai Tateishi, nel brano in cui suona due tipi di flauto, crea una sorta di drone per uno dei momenti più quieti ed evocativi della performance. Si assiste così a un allargamento delle sonorità che, per quanto minimo, espande notevolmente la forza dei pezzi e la godibilità del tutto, fin dal primo ascolto.

Musica quindi sì martellante, potente e, ma solo apparentemente, glaciale, ma molto meno monolitica di quello che uno potrebbe essere indotto a credere. È anzi, al contrario, brulicante di piccoli scarti e da un aggrovigliarsi di micro variazioni da perderci la testa. Alla fine la sensazione è quasi quella di una musica impossibile, ottenibile solo attraverso una disciplina zen.

Grandissimo concerto di una band che, per le cose che raccontavo a inizio articolo, mai avrei pensato di poter vedere dal vivo un giorno. Un immenso grazie a TUM ci sta tutto, quindi, in attesa delle loro prossime proposte sulle quali vi terremo informati. Stay tuned!

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