Interviste

I 15 anni di Let Go: intervista ai Nada Surf

NADASURF_800x600-vers2Quando nel 2002 i Nada Surf realizzano Let Go, il loro terzo lavoro, si trovano in una specie di limbo. Il trio formato da Matthew Caws (voce e chitarra), Daniel Lorça (basso e voce) e Ira Elliott (batteria e cori), formatosi a New York nel 1992, era stato baciato da un successo enorme fin dalla pubblicazione del primo album, High/Low (Elektra, 1996), soprattutto grazie all’imposizione di un singolo quale Popular. Ben più problematica fu invece la vita del successivo The Proximity Effect, disco che segnò la recessione del contratto con l’Elektra, la quale lamentava una carenza di singoli (lo pubblicò, ma solo in Europa, nel 1998), e che diede il via a una serie di battaglie legali che portarono infine la band a pubblicarsi l’album da soli negli Stati Uniti, nel 2000, per la loro MarDev Records.

Let Go fu non solo una ripartenza, ma quasi una rinascita. Fu il disco in cui per la prima volta la band si potè concedere il tempo di creare la propria musica senza pressioni, di maturare un proprio suono, di dar corpo in maniera più precisa e sostanziale a quel miscuglio di melodie pop e rock alternativo (ma chiamiamolo pure power pop che facciamo prima) che sarebbe stato poi il loro trademark sonoro. Un disco bellissimo, colmo di canzoni semplicemente stupende, piccoli classici che in questi quindici anni non hanno perso un millesimo della loro forza e della loro grazia incantata.

Come già annunciato in precedenza (qui), i Nada Surf stanno festeggiando la ricorrenza con un tour in cui stanno riproponendo l’album per intero, a cui ogni sera aggiungono una serie di chicche tratte dal resto del loro repertorio. In Italia passeranno solo da Milano, al Tunnel, tra pochissimi giorni, il 5 aprile, per una serata che si profila imperdibile, per i fan della formazione , ma non solo ovviamente.

Per l’occasione, abbiamo avuto modo di chiacchierare con Matthew Caws, il quale si è rivelato davvero affabile e gentilissimo nel rispondere alle nostre domande e nel toglierci qualche curiosità. Qui di seguito quello che ci siamo detti, una lettura che crediamo essere un bell’antipasto al loro imminentissimo passaggio in Italia. 

Let Go, album del quale state festeggiando il quindicinnale dall’uscita, è sicuramente il vostro disco più amato dai fan e un disco importantissimo nella vostra discografia. Cosa ricordi dei giorni in cui lo registraste?
Ricordo molto bene la sensazione di libertà. C’era un lato negativo: nonostante la nostra carriera avesse fin da subito preso una buona direzione, ci ritrovammo ad essere scaricati dalla nostra casa discografica. Ma c’era anche un lato positivo: ancora amavamo quello che stavamo facendo, le idee continuavano a venire e nulla poteva comunque fermarci dal realizzare il disco che volevamo fare. È un po’ come la vita, no? Qualche dispiacere, qualche accadimento sfortunato, ma anche l’eccitazione di essere vivo con tutto il futuro di fronte a te.

L’hai ricordato, venivate da un periodo difficile, soprattutto a causa dei problemi avuti negli Stati Uniti con la pubblicazione di The Proximity Effect. Fu una cosa che ebbe una sua influenza nella realizzazione di Let Go?
In un maniera se vuoi anche strana, devo dirti che non ebbe nessun effetto. Hai presente quella linea che divide la tua giornata di lavoro dal resto della tua vita? Beh, io penso che i problemi con la nostra etichetta facessero parte della prima categoria, mentre la realizzazione del nuovo disco avesse molto più a che fare col resto delle nostre vite. Mentre scrivo delle canzoni, l’ultimo dei miei problemi è la carriera, non ci penso proprio. E anche mentre registriamo, è come se ci trovassimo in un territorio completamente nuovo ogni volta.

Vi rendeste subito conto di avere per le mani un disco veramente forte, un futuro classico?MI0003993688
Non avemmo mai una sensazione di questo tipo, anche perché forse è un qualcosa che solo il tempo può dirti, no? Quello di cui di sicuro non ho memoria è di avere avuto un qualsiasi dubbio. Andò tutto assolutamente per il meglio. È curioso, perchè ricordo una marea di dettagli di quei tempi, però non ho nessun ricordo emotivo delle registrazioni. Credo dipenda dal fatto che ero completamente focalizzato su ciò che stavamo realizzando. E quando sei realmente assorbito da qualcosa, non c’è molto spazio per pensare ad altro, il che è davvero grande. È un po’ come la meditazione in un certo senso, essere concentrato su qualcosa e non pensare.

Secondo te, quale fu la qualità che rese Let Go un autentico turning point nella vostra carriera, la cosa che lo differenzia maggiormente dai dischi precedenti?
Penso che la peculiarità fu circostanziale. Credo che l’esser rimasti senza un contratto fu una benedizione. Ci dette una marea di tempo che altrimenti non avremmo avuto. Inoltre ci dette la libertà di non stare troppo ad arrovellarci circa il nostro “potenziale”. Avere un enorme successo con il tuo primo singolo può indurti in un processo di eccessiva auto-analisi e metterti un sacco di pressione addosso pur di piacere. Per quanto ne possa sapere, un bel po’ della musica pop e rock è nata grazie ad un senso di gioia spontanea e di libertà. E per quanto uno possa fare un sacco di lavoro pur di suonare gioioso e libero, è molto più facile suonare a quel modo quando lo sei veramente.

Io, ti posso dare la mia opinione di ascoltatore: rimasi estasiato dalla purezza delle melodie, da quel misto di dolcezza e malinconia che aleggia un po’ su tutto l’album. Credi che Let Go sia un disco essenzialmente pop, pop nel senso più nobile del termine ovviamente?
Si, credo lo sia, sei molto gentile a dire una cosa del genere. Se si potessero separare sia il pop che il rock in due parti ciascuno, il contenuto e il suono, le mie preferenze andrebbero per il contenuto del primo e per il sound del secondo, perciò un interno leggero e un suono eccitante. Il pop sound stereotipato è zuccheroso e non è un qualcosa che mi piace, mentre un altro stereotipo vuole il rock con contenuti aggressivi, cosa con la quale sono altrettanto poco in sintonia.

Mi piacerebbe che tu mi raccontassi qualcosa di alcune canzoni e non si può non partire da Inside Of Love, tra l’altro un grandissimo singolo…
Dal punto di vista lirico, Inside Of Love è un pezzo davvero inusuale per me, è così diretto e limpido. Questo era ciò che volevo, quello che avevo immaginato dovesse essere. Fu una cosa del tipo: cerco di ottenere questa cosa, non funziona, ok, continuo a provarci. Ci volle un sacco di tempo per scriverla, alla fine dovetti renderla più semplice. C’è un verso che ha un sacco di accordi in più. All’inizio era tutta così, ma non andava bene, era troppo ornamentale.

Blizzard Of ’77, il pezzo che apriva il disco e che secondo me dettava fin da subito in maniera splendida il tono dell’album…
Scrissi questa canzone in una stanza d’hotel ad Amsterdam, dove ci trovavamo per via di un breve tour a supporto di The Proximity Effect. Condividevo la stanza con Daniel e lui era addormentato. La scrissi e la registrai su un piccolo registratore a 4 piste portatile in bagno. Il suo mood è probabilmente influenzato da Elliott Smith, che ascoltavo veramente un sacco al tempo.

IMG_7504The Way You Wear Your Head
Avevo un piccolo campionatore chiamato Dr Sampler. Una delle mie band favorite sono i Lyres di Boston. Hanno una canzone intitolata How Do You Know?. Feci un loop campionando l’intro di quel pezzo, nel quale la band fa un groove solo con un accordo in Fa diesis. Un’altra band che mi piace molto sono i My Bloody Valentine. Apprezzo il modo col quale fanno ondeggiare gli accordi attorno ad un bordone, perciò continuai a suonare attorno a quel Fa diesis, però aggiungendoci anche degli altri accordi in contrapposizione ad esso. Il pezzo parla di una persona che incontrai che aveva gli occhi più chiari di quelli di un lupo.

La Pour Ça fu un’omaggio ai tuoi studi di francese?
Fu Daniel a scrivere il testo di questa canzone. Io parlo francese come seconda lingua, avendolo imparato quando avevo cinque anni, ma per Daniel è proprio la lingua madre. È nato a Madrid, ma la sua famiglia si trasferì a Bruxelles quando era ancora poco più che un neonato. Penso che avesse sempre voluto scrivere un pezzo in francese e che abbia passato un sacco di tempo a raccogliere le sue frasi preferite (sia reali che inventate).

Altro pezzo amatissimo è Blonde On Blonde, tra l’altro a suo modo anche un piccolo omaggio a Bob Dylan. È importante la sua musica per te?
Non ci sono neppure vicino al potermi considerare un allievo di Bob Dylan, probabilmente ci vorrebbe un’intera vita di studi. Al massimo posso dire di avere fatto alcuni album e canzoni che amo. Detto questo, credo proprio sia il mio artista preferito in assoluto, di certo è il mio musicista dell’Isola Deserta (se potessi portarmi solo l’opera di un singolo artista con cui passare il resto della mia vita, sarebbe la sua). Mi sento davvero fortunato a vivere in un tempo in cui posso ascoltare la sua musica. È una cosa che dà valore all’essere nati nel Ventesimo Secolo.

Ecco, se dovessi dire quali sono stati i musicisti più importanti per la vostra formazione di band e di autori, quali diresti?
Dylan a parte, direi The Kinks, The Beatles, Echo & The Bunnymen, Neil Young, The Who, The Ramones, Stereolab, Sonic Youth, Paul Simon, The Clash… Ma sono davvero troppi da menzionare, centinaia e centinaia di artisti…

Anche dal punto di vista dei testi, il disco mi pare molto riuscito: intanto si legano benissimo alle musiche e poi con pochi oculati tratti riescono ad arrivare dritti al punto e a raccontare qualcosa. Da dove prendesti ispirazione per i testi di Let Go?
Ti ringrazio molto. Sono solo pagine di diario, davvero, i pensieri di qualcuno che sta tentando di chiarirsi le idee sulla vita e sull’amore. Ci sto ancora provando, in effetti…

15 anni dopo, quale diresti sia la più grossa eredità lasciata da Let Go, in generale, ma anche nella musica dei NadaNADA-SURF Surf stessi? 
Eredità, mmm… Non sono sicuro si possa usare questa parola, è così soggettivo. So bene che la nostra musica è importante per alcuni, ma ad altri non significa nulla (il che, naturalmente, va benissimo). Ma per noi, questo posso dirtelo con certezza, Let Go è il disco con cui diventammo la band che poi saremmo stati. Con i primi due eravamo ancora alla ricerca di una nostra identità.

Una curiosità: come mai decideste di dare alle canzoni un ordine diverso nell’edizione americana rispetto a quella europea?
Fu una scelta dei due responsabili A&R che per primi si occuparono della pubblicazione dell’album, John Rosenfeld della Barsuk Records di Seattle e Jeff Barrett della Heavenly Recordings di Londra. I due vedevano l’album in maniera diversa, ma fu una cosa che non mi diede fastidio affatto, mi fidavo di entrambi. Potevo ben rendermi conto del fatto che il disco sarebbe stato troppo lungo con sia Neither Heaven Nor Space che No Quick Fix in scaletta, in più sono ben felice di poter dire che questo è un album in cui l’ordine delle canzoni non è così importante, visto quanto queste stanno bene in gruppo.

Per festeggiare questo anniversario, a parte il tour, avete anche pubblicato una versione speciale del disco, con ciascuna canzone reinterpretata da altri artisti. Come è stato messo assieme questo ricco cast? Voi siete stati coinvolti o siete solo l’oggetto di un bell’omaggio?
In linea di massima ce ne siamo chiamati fuori, dato che sarebbe stato ben strano mettere assieme un tributo a noi stessi. Visto però che i proventi andranno a favore di due ottime cause – American Civil Liberties Union, che protegge i diritti civili dei cittadini americani, e Pablove, che aiuta i bambini affetti da tumore – abbiamo finito con l’avere sentimenti molto positivi nei suoi confronti. L’idea è venuta a Ben, il nostro manager, a cui abbiamo lasciato il compito di effettuare tutte le scelte. Alcune erano ovvie, sono nostri amici. Personalmente ho suggerito un paio di nomi di artisti fuori dalla cerchia degli amici, ovvero Ron Gallo e Eyelids.

Le versioni sono in genere moderatamente diverse dagli originali. Ce n’è qualcuna che ha messo in luce qualche caratteristica di una canzone in una maniera che ti ha particolarmente intrigato?
Ho apprezzato parecchio la versione che Ron Gallo ha fatto di Happy Kid, suona veramente come se l’avesse scritta lui. Mi ha fatto praticamente dimenticare la nostra versione, il che credo sia una cosa proprio eccezionale per una cover.

Da quel che ho letto, durante i concerti di questo tour presenterete ovviamente tutto Let Go, ma anche una selezione di brani del vostro repertorio meno noto. Avete preparato molti brani tra cui scegliere?
L’abbiamo fatto! Ci siamo resi conto che visto che la gente avrebbe saputo perfettamente cosa aspettarsi dalla prima ora di show, sarebbe stato giusto offrire loro delle sorprese nel resto della scaletta. I fan di lunga data saranno parecchio contenti in questo tour! [sorride NdA]

nada-surf-pressIn questi concerti, tornerà a suonare con voi il tastierista Louie Lino. Una scelta per calarsi proprio nell’atmosfera dell’epoca?
Assolutamente! Dal vivo, quasi sempre siamo stati essenzialmente una guitar band, ma i nostri album hanno una forte componente di piano, organo e synth, strumenti che hanno grandemente contribuito alla loro atmosfera. Louie ha suonato molte parti di tastiera su Let Go e a lungo è stato un nostro collaboratore. Lui stesso si sente davvero come un membro della band.

Vuoi dire qualcosa ai vostri fan italiani, un paese dove mi sembra abbiate sempre avuto un bel manipolo di appassionati a seguirvi?
Ciao amici! Grazie per l’ascolto e per essere sempre venuti ai nostri show. Lo so che non veniamo spesso in Italia, ma davvero apprezziamo il fatto che ci stiate aspettando. Ci vediamo prestissimo!

Il vostro ultimo album è di un paio d’anni fa. Terminate le celebrazioni, avete già qualche idea per il vostro prossimo lavoro?
Idee precise ancora no, ma io sto scrivendo e quindi di sicuro ci stiamo pensando.

Grazie mille per la tua gentilezza e per le risposte.
Grazie a te, Lino.

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