foto: Paolo Brillo

Interviste

David Crosby: Croz a Milano

Quando Adolfo (Galli) mi chiama e mi chiede se voglio intervistare David Crosby, al momento non ci credo. Poi lui mi ribadisce che dopo domani, Domenica 7 Dicembre, c’è la possibilità di parlare, faccia a faccia, con DAVID CROSBY. Una leggenda. Uno inarrivabile, almeno per me. Invece è tutto vero. Ovviamente dico di sì. Devo solo preparare l’intervista. Chiedo una mano ai miei collaboratori: Luca Salmini, Marco Denti e Raffaele Galli. Le domande arrivano, qualche altra la metto io.
E poi, domenica, scendo nella capitale lombarda assieme ad Anna (chissà che poi non ci scappi una foto). Arriviamo al Westin Palace con un leggero ritardo e Crosby è li, nella hall, ad aspettarci. David Crosby, Dio, fatico a cre- derci. Poi me lo vedo davanti, un bel sorriso, baffoni in grande evidenza. E’ dimagrito, parecchio, ma sta bene. La voce è integra e lui, contro ogni mia previsione (non so perché, ma me lo immaginavo burbero), è gentile. Molto gentile. Sorride, dialoga in modo amichevole, risponde a tutto. Una vera sorpresa nella sorpresa. David Crosby è uno di noi. (Chissà perché pensavo il contrario).


Croz è un disco molto bello. Lo consideri un nuovo punto di partenza per la tua carriera?
Lo considero un disco fresco, diretto. Non avevo piani particolari quando ho cominciato a farlo. Quello che è accaduto tra me e James (ndr James Raymond), mio figlio, che lo ha anche prodotto, è che abbiamo cominciato a scrivere assieme. A scrivere canzoni. Entrambi amiamo il jazz, gli accordi complicati ed i suoni meno usuali, ed abbiamo lavorato in questo senso. La musica è cantautorale, da singer songwriter, ma con accordi più complessi ed atmosfere diverse, meno usuali. Mi piacciono, ma piacciono anche a James, gli intro di tromba, un sax dietro le voce, sonorità sparse ma sempre creative che danno alla canzone profondità, spessore, significati diversi. E James ha contribuito molto ad indirizzare questa mia voglia di diverso, a strutturare le canzoni e di conseguenza la musica su piani più variegati, diversi.

La tua voce è incredibile, è molto giovanile. Come riesci a tenerla così?
Non lo so, credimi. E’ un periodo che canto bene, la voce è perfetta. Ma non so dirti perché, mi viene fuori naturalmente in questo modo, e nel disco ho cantato bene. E, in un certo senso, hai ragione tu: è come una sorta di ripartenza della mia carriera.

Il disco ha un suono fresco, come hai detto tu. Non usuale: classico e moderno al tempo stesso. Era questo che avevi in mente quando hai iniziato a lavorare a Croz?
James ha fatto un lavoro fantastico. Ha messo avanti le mani su ogni cosa dovevo fare: è come se avessi lavorato nella bambagia, senza alcuna pressione, senza nessuno che mi dicesse cosa dovevo o non dovevo fare. Quando abbiamo iniziato non avevamo un piano preciso. Avevamo solo delle canzoni. Anzi abbiamo costruito il disco canzone dopo canzone. Senza pensare che cosa volevamo realmente fare, sino a che non abbiamo avuto un bel numero di canzoni fatte e finite ed abbiamo trovato il disco tra le mani. Un disco diverso, rispetto ad altri usciti in questo periodo. Croz non suona come gli altri dischi, ha un suo suono, le sue atmosfere.

Le radici di questo disco sono dentro al suono dei CPR.
E’ vero, quando eravamo nei CPR avevamo gettato le basi per questo tipo di suono. Lì abbiamo sperimentato parecchio e bene. Visto il risultato attuale. Canzoni come What’s Broken e Time I Have danno sensazioni positive all’ascoltatore, permettono di pensare oltre la vita e la società in cui viviamo. Ma sono anche canzoni positive. Time I Have spiega che non voglio (non vogliamo) perdere il mio tempo, da arrabbiato. Io ho passato buona parte della mia vita ad essere incazzato nei riguardi del prossimo, a prendermela per questo o per quello. Time I Have spiega la mia nuova filosofia, il fatto che non voglio più gettare via la mia vita per arrabbiarmi. Voglio essere positivo, costruttivo. Prendi Martin Luther King, ha passato la vita ad essere positivo e lui ne aveva ben donde di essere arrabbiato, negativo verso il prossimo .Le persone sagge sanno benissimo che non vale la pena di perdere del tempo ad essere arrabbiati. Io e James vogliamo andare ai piani più alti, superare le difficoltà, pensare sempre positivo. Tenere alta la speranza è uno dei nostri punti fermi anche se sappiamo benissimo che è dura, difficile, spesso quasi impossibile. E poi c’è in giro un mucchio di gente cattiva ma anche stupida. Molto stupida, che rende tutto più difficile.

Quando ti è venuta l’idea di fare Croz?
Avevo scritto un paio di canzoni, quella sulle prostitute, If She Called e Time I Have. Allora ho cominciato a pensare che c’era la base per fare qualche cosa ed ho chiamato James e lui è venuto ed ha portato What’s Broken. E poi, tassello dopo tassello, canzone dopo canzone, abbiamo costruito il disco. Sono venute altre canzoni e, a quel punto, sapevamo che avremmo potuto fare un disco. Ma è stato tutto molto naturale, niente di preordinato. Poi abbiamo registrato tutto nello studio di James, dove c’era un ottimo ingegnere del suono, musicisti di valore, e tutto è filato liscio. Il disco è cresciuto canzone dopo canzone ed una bella serie di amici hanno contribuito ad aiutarci a fare tutto al meglio.

Come mai hai scelto la Blue Castle, l’etichetta di Graham (Nash), invece di una major?
Perchè oggi non fa più differenza. Il disco lo abbiamo prodotto noi, senza alcuna pressione. Poi abbiamo firmato dei contratti di distribuzione in tutta il mondo, senza problemi. Anzi abbiamo trovato anche maggiore attenzione da parte dei discografici. La foto di copertina l’ha fatta mio figlio Django.

Il tuo primo disco, If I Could Only Remember My Name, è un classico che ha influenzato molte generazioni: a quel tempo ti eri accorto che stavi facendo un capolavoro di quella portata?
No, assolutamente no. Amo questo disco, profondamente, e ti racconto cosa è accaduto. Avevo iniziato a lavorare a Deja Vu e la mia compagna (ndr: Christine Hinton) è morta in un incidente: stava portando il nostro gatto dal veterinario, quando è stata investita. Questo fatto mi ha completamente distrutto, non sapevo più cosa fare, non volevo quasi più vivere: Nash è solito dire che non sono stato più lo stesso, dopo quell’incidente. Per me è stato durissimo lavorare a Deja Vu però, proprio durante le session di quel disco, ho capito che l’unico posto in cui stavo bene era in studio. Appena ho terminato di lavorare a Deja Vu mi sono buttato sul mio disco. Volevo rimanere in studio. Mi sono spostato negli studios Wally Heider di San Francisco, dove ho lavorato come un matto. Su Deja Vu avevo scritto solo due canzoni: Deja Vu appunto ed Almost Cut My Hair. Ma avevo altre canzoni pronte, diverse. Così mi sono tuffato in questo lavoro, cercando di non pensare più alla disgrazia che era successa. E avevo attorno a me degli amici, degli ottimi amici: Garcia, Nash, Kantner, Phil Lesh, Kaukonen, Casady. Grace, David Freiberg, Neil, Joni ed altri. In particolare Jerry Garcia, grande uomo.

Trovi l’articolo completo su Buscadero n. 374 / Gennaio 2015.

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