Browne a Occupy

Interviste

Jackson Browne: un pomeriggio a Milano

Un pomeriggio di inizio di Novembre mi chiamano dalla Warner, da Milano. Mi chiedono se voglio intervistare Jackson Browne, un faccia a faccia. Salto sulla sedia. Ovvio che lo voglio. E la cosa va in porto. Domenica 9 Novembre, dopo pranzo, mi reco all’hotel Westin Palace a Milano, Piazza Della Repubblica, dove incontro, dopo le quattordici, Mr Browne. […] Abbiamo parlato un’ora, con Adolfo (Galli) che lo spronava a chiudere (dovevano andare a registrare per il programma di Fazio), ma Jackson, imperterrito, continuava a parlare. Quando ha ritenuto opportuno chiudere, abbiamo chiuso. Ma il dialogo è stato bello, profondo, interessante. Vediamo di sentire quanto mi ha detto…

Iniziamo a parlare, prima di sederci per l’intervista, e gli dico che andrò a vederlo a Londra, alla Royal Albert Hall. Lui mi chiede come mai. Perchè suoni con la band. E, a questo punto, iniziamo a parlare in modo fitto.

Mi piace il suono della tua band.
Capisco quello che vuoi dire. Ho avuto tanti musicisti, tantissimi chitarristi, Bob Glaub, Jeff Young, Danny Kortchmar, Rick Vito, Mark Goldenberg, David Lindley ed altri. Ma quello che accade quando Val McCallum e Greg Leisz suonano assieme è incredibile: una fusione di intelligenza e creatività, di bellezza e inventiva. E’ irripetibile, loro due riescono a fondersi in un modo unico, dando luogo a dei suoni speciali, coinvolgenti, affascinanti. E’ stato un regalo per me, che questi due musicisti fossero entrambi disponibili.

Ci sono due dischi, in questo momento, che si elevano dalla massa. Due dischi che hanno un suono speciale: il tuo e quello di Lucinda Williams.
L’ho sentito, un disco fantastico.

Greg Leisz e Val McCallum suonano anche con lei.
Lo so, lo so benissimo. Quando Val suona con me, Blake Mills suona con Lucinda. Conosci Blake Mills?

Sì, il suo nuovo disco, Heigh Ho, mi piace molto.
Sì, lui è un musicista particolare. E’ anche un produttore. Adesso sta lavorando al nuovo degli Alabama Shakes, come produttore. In precedenza aveva prodotto Sara Watkins, il suo ultimo disco come solista. Blake è un creativo, inventa suoni, i suoi dischi non sono usuali, anzi molto innovativi.Uno dei migliori sulla scena. Heigh Hoè diverso dal suo disco precedente, molto diverso. Lui è uno che si muove, di continuo. Quando Blake stava producendo Sara Watkins, Val aveva registrato il suo disco solista, ma solo con le chitarre acustiche, senza elettrica.

Sì, me lo ricordo, At The End of The Day.
Proprio quello, un disco che a me è piaciuto molto. Val è un uomo sorprendente, tutti pensavano che l’avrebbe fatto elettrico. Lui suona con me da un po’ ed è un uomo profondamente spirituale, è in grado di capire la musica e di interpretarla di conseguenza.

Standing In The Breach è uno dei tuoi dischi più riusciti. Quanto tempo ci hai messo a scrivere le canzoni, a registrarlo?
E’ difficile dirlo. Una canzone è stata registrata cinque anni fa per un film, un’altra per il tributo a Woody Guthrie. Le canzoni le ho scritte nel corso del tempo, a parte The Birds of St Marks che è stata scritta più di quaranta anni fa. Ma Yeah Yeah, ad esempio, è vecchia, l’ho scritta molto tempo fa. E’ un disco che ho meditato, suonato e risuonato, ancora prima di registrarlo. Un disco che ho vissuto sulla mia pelle nota dopo nota, canzone dopo canzone. Non ho iniziato questo disco, è cominciato lentamente dentro di me, senza che quasi me ne accorgessi. Ero coinvolto in Occupy, non avevo tempo di scrivere. Standing in the Breach, la canzone, l’ho iniziata tre anni fa, ma l’ho finita solo di recente. Un disco che è maturato lentamente, senza una data che mi obbligasse a concluderlo. Prendi il brano che ho tradotto su testo di Carlos Varela (Walls and Doors). Tutto è nato quando Carlos mi ha invitato ad andare a Cuba a cantare un verso della sua canzone in inglese: e questo a Cuba è assolutamente speciale. Era un momento particolare, lui non era visto molto bene dal governo di Cuba e poi lo spettacolo era abbastanza costoso: ma non importava. Non era una questione di soldi, ma una questione di carattere. Il fatto di avere un americano che avrebbe cantato, anche solo un verso, in inglese, era una sorta di sfida culturale ai governativi, ed è quanto abbiamo fatto. Ed è stato a quel punto che ho deciso di tradurre Walls and Doors e di inserirla nel disco. E Standing in The Breach è andato avanti di conseguenza, una sorta di accumulazione di canzoni, canzoni che mettevo da parte, una dopo l’altra, sino a quando mi sono reso conto di avere un disco tra le mani.

Standing In The Breach non abbandona certo il tuo impegno politico.
No, assolutamente no. E’ un disco impegnato a vari livelli. Non vado giù duro, sono magari più morbido. Ma dico quello che penso. L’America, per esempio, va in giro ad esportare la sua democrazia, ma non è una vera democrazia. Da noi chi ha i soldi, può comprare voti, ed è legale. E questo non è certo democratico. Al tempo stesso cerco di vedere se i governi di altri paesi, vedi Turchia, Honk Kong, la Primavera Araba, rispondono alla propria gente: il più delle volte, anzi sempre, le risposte sono deludenti. E’ un disco che cerca di affrontare tematiche a vari livelli, prendi Standing in The Breach: ho cominciato a scriverla dopo il terremoto di Haiti, più di tre anni fa. Ma poi è diventata una canzone che parla di come superare le difficoltà. D’altronde è il titolo del disco e la copertina è in tema con il contenuto.

Trovi l’articolo completo su Buscadero n.373 / Dicembre 2014.

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