Foto: Rodolfo Sassano

In Concert

Israel Nash Gripka live a Lugano (CH), 23/6/2016

Pur non nutrendo un particolare affetto per la Svizzera, devo ammettere che in quanto ad organizzazione di concerti e spettacoli musicali sanno il fatto loro. Certo contano anche i soldi e la disponibilità di sponsor “illustri”, nomi grossi che mai e poi mai da noi darebbero quattrini a eventi di rock, jazz, blues, musica da strada, poesia beat, urban art, di tono minore, trasformando Lugano in un palcoscenico distribuito in tanti set, alcuni gratuite, altri a prezzi più che abbordabili.

Dentro questo palcoscenico chiamato Longlake Festival nella sezione intitolata Rock’ n’ More è andata in scena, nella amena cornice di Parco Ciani, l’esibizione del rocker americano Israel Nash Gripka, già passato da noi qualche anno fa al tempo del suo fortunato Barn Doors and Concrete Floors, quando venne segnalato come un epigono di Neil Young. Da quel disco lo stile del nostro è progressivamente cambiato e se nei suoi primi dischi prevaleva un ruspante e tagliente folk-rock aperto ad esaltanti cavalcate elettriche, gli ultimi lavori hanno spostato il baricentro della sua musica verso un cosmic-country visionario e mistico, argomento di due dischi come Rain Plains del 2013 e Silver Season dello scorso anno.

Proprio questi due lavori hanno costituito l’ossatura dello show di Lugano, anche se la dimensione live ha permesso a Israel Nash e la sua band di indurire le atmosfere ovattate e oniriche di studio per creare uno show dove le chitarre hanno spadroneggiato in lungo e in largo rimettendo in circolo il sound dei Crazy Horse e di una West-Coast acida quanto basta per non puzzare di patchouli e chincaglierie orientali. Due chitarre elettriche, compresa quella del leader, basso, batteria ed una lap-steel impegnata a disegnare gli orizzonti dilatati di un cosmic-country nient’affatto soporifero, il set di Israel Nash, applaudito da un centinaio di presenti, si è sviluppato attorno a ballate cantate con quel tono malinconico e rapito, tra sogno e risveglio, e a quei crudi giochi elettrici tra chitarre e sezione ritmica che fissano nell’ascoltatore il ricordo di Like a Hurricane, rifatta e riveduta da una band che ai virtuosismi preferisce il gesto estemporaneo, l’immediatezza, l’esposizione primitiva del rock n’roll.

Certo, questo folk-rock rurale mischiato di country visionario e di rasoiate urbane si ripresenta quasi invariato nelle canzoni che Israel Nash sciorina dal vivo, il cui limite maggiore è proprio quello di insistere su un tema melodico ed un andamento ritmico troppo simile, che si ripete senza troppa varietà, ma il songwriter del Missouri oggi vivente in Texas, capelli lunghi, barba da predicatore e stazza da contadino, predilige una cucina di sostanza più che di raffinatezze. Tra i brani riconosciuti, l’iniziale Rexanimarum e poi Mansions e Rain Plans dall’omonimo album, Parlour Song, Lavendula e la bella LA Lately dal recente Silver Season. Pochi i titoli riesumati dai primi album, che a parere di scrive hanno una marcia in più; unica cover Isn’t It A Pity di George Harrison, poca cosa rispetto a cavalcate tipo Revolution Blues di Neil Young che era solito fare nel passato, ma il finale è ugualmente elettrizzante e coinvolgente, e gli svizzeri più diversi italiani vanno a casa contenti.

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