Recensioni

Jerry Garcia Band, Garcia Live: Volume Five

garcialiveJERRY GARCIA BAND
Garcia Live: Volume Five
2CD, ATO Records
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Secondo la biografia, una di quelle in cui la realtà, per forza di cose, s’intreccia spesso e volentieri con la leggenda, Jerry Garcia, con tutte le molteplici configurazioni dei suoi gruppi, avrebbe suonato più di 200 volte nel piccolo Keystone di Berkeley, California, un club per amanti della buona musica gestito dall’amico Fred Herrera dove, pur senza raggiungere la frequenza del leader e chitarrista dei Grateful Dead, si esibirono anche Ray Charles, James Brown, John Lee Hooker, Herbie Hancock, George Strait e molti altri.
Il Keystone fu il primo luogo in cui Garcia tornò a mostrarsi dal vivo dopo il coma diabetico che lo colpì nel 1986 e quello dove più spesso apparve a fianco di Nicky Hopkins, lo strepitoso tastierista inglese di Rolling Stones e Kinks (fra i tanti) trasferitosi a nord di San Francisco a cavallo tra gli anni ’60 e ’70 e in quell’epoca (regolarmente dall’agosto al dicembre del 1975, a intermittenza nelle stagioni successive) membro più o meno fisso della Jerry Garcia Band.
La line-up della JGB targata ’75, ovvero il citato Hopkins più John Kahn al basso e Ron Tutt ai tamburi, è già stata al centro del doppio capolavoro Let It Rock: The Jerry Garcia Collection, Vol.2 (2009), anch’esso registrato al Keystone nonché una delle due o tre migliori testimonianze del lavoro, del gusto e dello sconfinato amore per la musica del barbuto chitarrista al di fuori delle schiere del Morto Riconoscente, mentre in questo Garcia Live: Volume Five – December 31st, 1975, Keystone Berkeley, accanto a Hopkins, Garcia e Kahn troviamo la batteria funky di Greg Errico, già collaboratore di Sly & The Family Stone, le percussioni di Mickey Harte la sei corde di Bob Weir (entrambi provenienti dai Dead), l’armonica di Matthew Kelly (affiliato dei Kingfish dell’amico Weir).
Croce e delizia del presente show è, come sempre, Hopkins, non solo in costante lotta contro le infiammazioni intestinali procurategli dal mai sconfitto morbo di Crohn di cui soffriva (e che lo porterà a una morte prematura, appena cinquantenne, nel 1990), ma in genere, a quei tempi, talmente ubriaco, per sua stessa ammissione, da non ricordare in pratica nulla di qualsivoglia concerto tenuto tra la seconda metà dei ’70 e i primi anni del decennio successivo. Eppure, se la sua mancanza di lucidità e le sue “eclissi” (chiamiamole così) sono a dir poco evidenti, partendo per esempio da una peraltro tumultuosa Let It Rock (Chuck Berry) in cui il nostro, per qualche minuto, nemmeno pare accorgersi del fatto che il resto della band abbia dato fuoco alle polveri, fino a raggiungere un classico dei Dead come They Love Each Other, rallentato di proposito per consentire al momentaneamente frastornato pianista di recuperare il tempo degli altri 3/4 del gruppo, quando Hopkins riesce a entrare in partita la performance diventa a dir poco stellare. Sono bellissimi certi suoi ricami strumentali, su tutti i due minuti di agrodolce improvvisazione in fondo alla beatlesiana Mother Nature’s Son usati da Garcia e soci per incollarsi al soul bollente di It Ain’t No Use (The Meters), e sono travolgenti, a voler adoperare un eufemismo, le intersezioni inventate, dopo il rituale countdown di fine anno, da Hopkins, Garcia, Hart e Weir per trascinare la nottata verso un’esplosiva baraonda rhytm’n’blues in cui spiccano la doppia versione di Mystery Train (Elvis Presley), showcase di tutti i musicisti ripetutamente in assolo, il rock-soul incendiario di Tore Up Over You (Hank Ballard) e quello proto-punk di (I’m A) Roadrunner (Junior Walker), il rock’n’roll a rotta di collo dell’immancabile CC Rider e i graffianti dieci minuti tra soul, funky e blues di una monumentale How Sweet It Is (To Be Loved By You) (Marvin Gaye).
Miracoli e misteri del rapimento delle sette note, in grado persino, nell’occasione giusta, di rimediare, guarire e seppellire, per qualche ora almeno, anche la più costrittiva delle dipendenze. La condotta etilico/chimica di Garcia, Hopkins e soci, del resto, non potrebbe mai finire in uno di quei tristi opuscoli che illustrano le direttive in materia di Ministeri della Salute di solito più interessati, anziché alla salute dei cittadini, a risparmiare prestazioni pubbliche. Ma la loro musica, tutti i brani che hanno saputo creare, rigenerare, rileggere, rivitalizzare, ricostituire, adattare e trasfigurare, assecondando una fame inesorabile di ricordi e di suoni, andrebbe prescritta, in qualsiasi momento, a chiunque abbia voglia di vivere un po’ meglio.

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