foto: Rodolfo Sassano

In Concert

John Hiatt live a Carroponte (MI), 8/7/2015

Chi desiderava un greatest hits dal vivo di John Hiatt avrebbe dovuto venire a Sesto San Giovanni l’8 luglio, serata rinfrescata da una brezza inaspettata dopo giorni di asfissiante calura. Nel decor post-industriale del Carroponte con le zanzare a caccia di sangue stagionato, l’età dei presenti era ampiamente negli anta, lo sbarazzino e vivace set di The Reverend and the Lady, al secolo la contrabbassista Alessandra Cecala ed il chitarrista Mauro Ferrarese, imperniato sull’antico blues di Bessie Smith, ha fatto da degno prologo ad un concerto che si rivelerà energico e muddy, sintonizzato su un sound dove rock e ballate godranno di quel drive south che tanto piace agli estimatori dell’artista di Indianapolis.

Visibilmente invecchiato dopo l’ultima volta che lo avevo visto in azione, tre anni fa alla House of Blues di New Orleans, John Hiatt ha però dimostrato che né il caldo né gli anni possono scalfire un songbook di prima classe, una sequenza di canzoni che da sole raccontano l’America nelle sue diverse facce, tra sogni, sconfitte, crisi, lutti, resistenze e acque fangose, un’America poeticamente cantata col piglio realista di un cronista sociale. John Hiatt ha cortesemente salutato in italiano i cinquecento accorsi a vederlo, ormai una confraternita di amici, conoscenti, musicisti più o meno noti, che si ritrova quando in scena va la musica di qualità e non di quantità. Cappellino, camicia a quadretti portata con nonchalance fuori dai pantaloni a nascondere un bacino un po’ allargato, viso rugoso e scavato, John Hiatt mostra i suoi anni e quando la voce stentorea intona Your Dad Did, un titolo del suo lontano capolavoro Bring The Family, la sensazione è quella di un concerto all’insegna della nostalgia e del rimpianto, che comunque non potrà deludere i suoi fans solo per il fatto che gli eroici cinquecento del Carroponte nutrono verso l’artista una stima fuori dell’ordinario.

Ed invece non sarà affatto così perché non appena l’ugola di John Hiatt si scalda usando Your Dad Did e Detroit Made, unico brano assieme a Long Time Comin’ e Face of God della recente produzione, a mo’ di gorgheggio, il concerto partirà verso i lidi di un nerboruto rock tinto di soul e sporcato di rhythm and blues dove i ganci elettrici saranno addolciti da romantiche aperture acustiche, con una band che farà vedere la su natura on the road tra brucianti assoli di chitarra (Doug Lancio) ed una sezione ritmica che ci darà dentro senza tanti fronzoli. La voce di Hiatt riempie le sue credibili short stories di sentimento anche se non manca quel tocco noir che aggiunge mistero, è una radiografia dell’anima, profonda, bluastra, magnetica ed il suo carnet di canzoni brilla come un diamante. Brani uno più bello e mai uguale all’altro, ognuno con una sua melodia, coinvolgente per parole e suoni, titoli e refrain che non si dimenticano e non si confondono, si cantano sommessamente seguendo la voce dell’artista che in quasi due ore regala un vero e proprio greatest hits della sua discografia. Cosa che fa piacere ai presenti e rispecchia l’atteggiamento che hanno gli americani quando vengono ad esibirsi da noi, sacrificando magari l’ultima produzione e le chicche nascoste, che invece appagherebbero chi l’ha visto tante volte e si aspetta qualcosa di nuovo.

Ma questo è il menù del tour europeo del 2015 e va bene così, quindi largo alla sua antologia perché come ha detto Hiatt al tempo del suo acustico e bluesato Crossing Muddy Waters only the song survives, solo la canzone sopravvive. E allora eccolo lì sul palco nella ex Stalingrado d’Italia a raccontare della vita, dell’amore, di Dio e delle perdite, con la classe di chi gli basta un attimo per smuovere le emozioni ed un altro per farti muovere attorno al suo talking ciondolante e filmico. Basta il teso assolo di Perfectly Good Guitar per far capire che questo è rock n’roll e non la confessione di un artista sul viale del tramonto, e allora va in scena la sequenza da brividi di Paper Thin, Real Fine Love e Tennesse Plates dove l’artista evoca i southern spirits di Slow Turning e Stolen Moments, con Doug Lancio concentrato nei suoi assoli di chitarra tanto stringati quanto spietati, mentre Kenneth Blevins picchia col suo solito aplomb ed il bassista arrotonda un suono elettrico mai stridente ma denso come un bourbon. Hiatt li accompagna con la acustica, si piega, entra nelle canzoni e si attorciglia attorno ai suoi amori disperati e riabilitati, passando dalla potente Cry Love uno dei numeri più emozionanti del concerto, a Real Fine Love alla muscolosa Thing Called Love. Dopo il tuffo nelle acque limacciose e blues di Crossing Muddy Waters c’è il tempo per la malinconica Long Time Comin’, brano che apre l’eccellente e recente Terms of My Surrender, poi l’asticella si alza e Drive South punta decisamente a sud fino a quella Memphis In The Meantime che mette in movimento le stesse impalcature ferrose del Carroponte tanto è sensuale, ritmica, contagiosa.

Si chiude il concerto ufficiale e bastano tre minuti perché Hiatt e il suo combo ritornino sul palco, richiamati dai suoi estasiati followers, immediatamente ripagati dall’attesa romantica Have a Little Faith On Me e da una lunga, sferragliante e selvaggia versione di Riding With The King dedicata a B.B King “devastata” da un assolo torcibudella di Lancio che non finisce mai. Concerto ineccepibile, per nulla retorico ma vivo ed energetico, tutto il contrario di certe esibizioni stantie e malinconiche di altri rockwriter americani della sua generazione visti da queste parti. Una boccata di aria fresca in una calda notte di mezz’estate.

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