Foto: Lino Brunetti

In Concert

Julien Baker live a Milano, 18/9/2018

Quando arrivo all’Arci Ohibò la coda per entrare è davvero lunga, parte dalla cassa del locale, attraversa tutto il cortile, si dipana lungo la scala d’accesso e si allunga per oltre una decina di metri per la strada. È vero che un po’ di gente si è accumulata perché deve fare la tessera Arci, necessaria per entrare, ma come poi sarà chiaro una volta dentro, la realtà è che Julien Baker si è già costruita una fanbase notevole, tanto che alla fine il salone dell’Ohibò sarà pieno all’inverosimile, per quello che in definitiva era un sold out annunciato.

Quando entro, sul palco c’è Becca Mancari, cantautrice nata a New York, rilocata in Florida, figlia di un predicatore italo-irlandese e di madre portoricana, il cui breve set, in cui è accompagnata da un chitarrista, mette in mostra un bel campionario di canzoni dall’anima folk, intrise d’impegno sociale e politico, cantate con forte personalità e autoconsapevolezza. Non l’avevo mai sentita nominare prima ed è stata una bella scoperta. Il suo album d’esordio, uscito l’anno scorso e intitolato Good Woman, merita probabilmente di essere scoperto.

Nel frattempo in sala la temperatura è diventata letteralmente rovente. Come detto, il pubblico è decisamente molto numeroso e il clima più che estivo di questo metà settembre, senz’altro anomalo, contribuisce a rendere l’aria quasi irrespirabile. Si suda parecchio insomma e l’umidità è così alta che lo stesso fanno pure muri e pavimenti. Stare qua dentro parrebbe una follia, ma basta che Julien Baker salga sul palco e attacchi la prima canzone per farti, almeno in parte, dimenticare della sofferenza che stai subendo.

Minuta, tatuata, con l’aspetto di una ragazzina che la fa sembrare persino più giovane dei suoi 23 anni, la Baker ha stregato tutti quanti si siano imbattuti in lei attraverso due album di straziante bellezza: Sprained Ankles, il suo crudo esordio del 2015, dapprima uscito per una piccolissima etichetta e poi riscoperto dalla Matador, e Turn Out The Lights, il suo più strutturato seguito uscito l’anno scorso. Come su disco, anche dal vivo fa quasi tutto lei, con una chitarra elettrica, una grossa pedaliera d’effetti e una tastiera. Giusto in qualche pezzo c’è una violinista ad aggiungere ulteriori sfumature alle sue canzoni.

Chi se la immaginava timida e introversa sul palco, deve in qualche modo ricredersi. Le sue sono canzoni senza filtro, spessissimo dolorose e letteralmente col cuore in mano nel descrivere angoscia e malessere, ma lei le canta con forza, con nessun timore, priva di alcuna paura nel mettere in mostra sentimenti intimi e personali davanti ad una massa di sconosciuti. A tratti è anzi addirittura divertita: il pubblico le fa sentire tutto il suo calore, canta le sue canzoni insieme a lei, e lei non può far altro che sorridere per via di questo abbraccio così forte, per il senso di comunione che il singalong generale innesca, soprattutto se pensiamo che, come ci ricorda, le sue sono canzoni nate dal dolore, dal senso d’isolamento, dal sentirsi inadeguati.

Curiosamente, più che quelli del nuovo album, sono soprattutto i pezzi del primo a palesarsi nella scaletta, col sound ricondotto alla schietta semplicità proprio di quel disco. Canzoni disossate che arrivano direttamente al cuore, di un’intensità lacerante, di un lirismo che non lascia scampo e che senza mezzi termini commuove. La voce può passare dal sussurro all’urlo e quando lo fa ti lascia senza fiato. Citare un pezzo piuttosto che un altro diventa allora inutile, perché è tutta la performance che strega, come se avessimo sperimentato un’ora vissuta in apnea, sommersa dalla musica di uno scricciolo dal talento immenso. 

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