Foto: Lino Brunetti

In Concert

Khruangbin live a Milano, 6/2/2019

Ok, c’era stato lo spostamento del concerto dal Fabrique al più piccolo Santeria Social Club – in larga parte credo giustificabile per via della contemporaneità, nella stessa serata, dello show dei Massive Attack, che più di uno spettatore avrà scippato – ma è un incontrovertibile sold out quello che accoglie i Khruangbin in questa loro sortita milanese.

Con due album – The Universe Smiles Upon You del 2015 e Con Todo El Mundo, uscito all’incirca un anno fa – e un pugno di EP, la band di Houston, Texas è già riuscita a conquistarsi un bel seguito di pubblico, tanto da permettergli di stare costantemente in tour e di portarli, nei prossimi mesi, in paesi come Turchia, Giappone, Corea del Sud, Australia e Stati Uniti, con una puntatina estiva anche in Europa per qualche festival. Non male per una formazione in pratica completamente strumentale e lontanissima da qualsiasi trend attuale. 

Sul palco, come su disco, si presentano in tre: Laura Lee al basso, Mark Speer alla chitarra e Donald Johnson Jr. alla batteria. Tutti e tre, quando serve, ci mettono la voce, ma tolta Even Finds The Third Room, l’unico pezzo autenticamente cantato, quelli che appaiono nei loro pezzi sono solo dei sospiri, dei coretti estemporanei, dei piccoli lalala che accrescono la sensazione di trovarsi di fronte ad una band che fa lounge music.

Ora, in parte è anche vero, però in questa musica così rilassata, così morbida e suadente, c’è un tasso di raffinatezza e una capacità d’inglobare pressoché qualsiasi cosa che ha del sorprendente. La differenza la fa la chitarra di Mark Speer, uno che indubbiamente sa come muovere le mani sul manico e come trarne, oltre che un suono spettacolare, un affastellarsi di fraseggi melodici straordinari. Lo si è detto da tutte le parti e lo ripetiamo anche qui: ai Khruangbin non serve la voce, perché la loro voce è per l’appunto ciò che esce dalla sei corde di Speer. Le loro canzoni vanno a cercare ispirazione non solo in alcuni obblicati passaggi della musica U.S.A. (il twanging della surf music, certi passaggi blues, rock o country, il funk), ma soprattutto assorbono good vibrations, rivoltandole a loro piacimento e sintetizzandole in un sound perfettamente riconoscibile quale loro, dalle tradizioni musicali turche, indiane, latine, orientali e chi più ne ha, più ne metta. 

Un esempio della loro capacità ricombinatoria viene fuori dal lungo medley in cui omaggiano l’Hip-hop (tra l’altro il batterista è un produttore in questo campo), trasformando brandelli di brani di A Tribe Called Quest o Busta Rhymes in qualcosa di completamente diverso, tanto da poterci infilare dentro persino la Wicked Game di Chris Isaak. Al resto ci pensano i loro pezzi, brani accolti dai boati del pubblico come Como Me Quieres, Maria Tambien o come quella mutazione disco-funk che è la citata Even Finds The Third Room, giusto per citarne qualcuno proveniente dall’ultimo album.

Donald Johnson Jr. è un autentico metronomo, non ha propriamente quella che si potrebbe definire una verve scoppiettante, ma il suo drumming non perde un colpo. Laura Lee lo supporta egregiamente con le sue sinuose linee di basso e con una sensualità semplice e naturale. Come dicevamo, a dar definitivo corpo al tutto ci pensa poi Speer, straordinario sia nel fraseggio melodico, che nei momenti di più acida e lirica accelerazione chitarristica. La risposta del pubblico è a dir poco entusiastica, nella sala l’esaltazione è letteralmente palpabile e i sorrisi che arrivano dal palco fanno intuire che tutta quest’energia è stata percepita e assorbita anche dalla band. Ulteriore prova di questo successo, il vero e proprio assalto al banchetto alla fine dello show, dove in tantissimi hanno comprato di tutto.

Ottimo concerto davvero insomma, aperto dai giovanissimi Ginger Root da Los Angeles, tutto sommato anch’essi quantomeno piacevoli per la mezz’ora in cui son stati sul palco.

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