Recensioni

Link Wray, 3-Track Shack

linkwrayLINK WRAY
3-Track Shack
Ace 2CD
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Nato nella primavera del 1929, secondo di tre fratelli, nella Carolina del Nord, Fred Lincoln, abbreviato in “Link” Wray per distinguerlo dal più piccolo Fred, anche lui battezzato col nome del padre, sperimentò in gioventù fame, povertà e miseria senza però mai smettere di ripensare gli anni della crescita come oasi di equilibrio e armonia almeno fino al quarto matrimonio, quando alla fine dei ’70 la relazione con Olive Julie Povlsen – una studentessa danese di origini pellerossa, come Wray, e con 25 anni meno di lui, sposata nel 1979 – lo convinse a tagliare i ponti con il resto della famiglia, nonché con i suoi otto eredi (diventati 9 nella prima metà degli anni ’80), per trasferirsi in via definitiva a Copenhagen, dove sarebbe morto, settantaseienne, a causa d’un infarto derivato dalla mai curata tubercolosi contratta prestando servizio di leva in Germania e Corea, nel 2005.

Malgrado la popolarità guadagnata a cavallo tra i ’50 e i ’60, allorché i distorti power-chord della sua Gibson Les Paul del 1953, strillati da un amplificatore Premiere da 30 watt, inventarono i riff bellicosi di Jimmy Page e Pete Townshend, e più in generale le intere epopee di garage-rock, hard e punk, Wray continuò per anni a sognare l’idillio rurale della giovinezza, segnata dall’invalidità paterna, da uno stomaco spesso vuoto, da una scuola elementare frequentata senza nemmeno possedere un paio di scarpe, da continui pellegrinaggi in altre regioni (quella vissuta più a lungo fu la Virginia) e dalla residenza in rudimentali baracche allocate in una provincia bigotta e razzista, quasi sempre illuminate o riscaldate da economiche candele (o al massimo da qualche lampada a kerosene), e nondimeno vagheggiata dal nostro quale emblema di una quiete familiare in seguito, tra divorzi, litigi e battaglie legali, destinata a scomparire.

Così, dopo aver passato quasi un decennio a infiammare le serate dei giovanissimi rovesciando lo stile dell’amatissimo Chet Atkins in un vortice di violenta elettricità (sovente accompagnato dai fedeli Raymen), sul finire dei Sessanta, conclusa l’esperienza presso le etichette Cadence e Swan, Link Wray decise di trasferirsi presso la fattoria del fratello maggiore Vernon, nei dintorni di Accokeek, un paesino del Maryland distante appena 20 chilometri da Washington DC. Lì, o più sporadicamente nei pochi locali della zona, talvolta raggiunti da Doug – il fratello minore – in veste di batterista, i tre continuarono a strimpellare per il gusto di farlo, finché la moglie di Vernon, Evelyn, esasperata dal trambusto, non gli intimò di trovare una sede alternativa: fu allora che i fratelli Wray riadattarono il pollaio (chicken-shack) di Vernon in sala prove, dotandolo di una grossolana forma di insonorizzazione e registrandovi su di un antidiluviano trepiste.

Risale a questo periodo il materiale raccolto in 3-Track Shack (alla lettera, «il capanno a tre piste»), seconda ristampa delle tracce già compendiate nel (quasi) omonimo Wray’s Three Track Shack pubblicato dalla Acadia nel 2005 e all’epoca rese possibili dall’interessamento del produttore, e saltuario percussionista, Steve Verroca, rimasto folgorato nel corso di un’esibizione tenuta da Wray nei dintorni e per qualche stagione promotore della sua (breve) permanenza discografica su Polydor e Virgin. Dei tre dischi riaffiorati in 3-Track Shack (32 canzoni più la rara versione del tradizionale I’m So Glad, I’m So Proud uscita solo su 45 giri), l’eponimo Link Wray (1971) e il successivo Mordicai Jones (inciso e fatto uscire lo stesso anno, ma accreditato a un fittizio cantante per anni ritenuto essere il pianista Bobby Howard: trattavasi invece di Gene Johnson, vocalist di Washington senz’altro più educato, in termini di uso dell’ugola, del buon Wray) vennero dati alle stampe dalla prima, mentre Beans & Fatback (1973) uscì sotto l’egida della seconda.

A dispetto della loro perdurante oscurità, si tratta di album tanto seminali quanto la prima parte della carriera di Wray (resa obsoleta solo dall’avvento della Brit-invasion), intrugli in anticipo sui tempi di svisate blues, folk downhome, ballate graffianti e crudi ruggiti rock in cui è possibile cogliere la stessa ispirazione bucolica, ruvida e selvatica dei dischi di John Fogerty o Tony Joe White, unita alla straordinaria capacità di avvisare, con insolita e radicale preveggenza, tutte le rivoluzioni tradizionaliste, più o meno weird, dei decenni a venire.

Brani come l’urticante Fire And Brimstone (ripresa da Mark Lanegan nel 2012 per la colonna sonora del film Lawless, ma la trovate anche su Yellow Moon [1989] dei Neville Brothers), le escoriazioni rock and roll di La De Da, Scorpio Woman o The Alabama Electric Circus, il gospel ubriaco di Take Me Home Jesuse The Coca-Cola Sign Blinds My Eyes, il country zoppicante e sbilenco di Days Before Custer, Fallin’ Rain, Crowbar, Hobo Man e From Tulsa To North Carolina, il folk straccione di Water Boy e Shawnee Tribe, il boogie sanguigno, rozzo e trasandato di Walkin’ In The Arizona Sun, il paludoso gracidare rock-blues di una Tail Dragger tra i Creedence e gli ZZ Top, l’apocalittico sfascio sudista di Right Or Wrong (You Lose) e l’affresco da cowboy sotto LSD di God Out West dicevano, e dicono, di un artista letteralmente rigenerato, se non dall’eremitaggio, perlomeno dalla possibilità di vivere in quella dimensione agreste e solitaria a lungo desiderata.

Il caratteraccio di Link Wray avrebbe poi di nuovo preso il sopravvento, portandolo a litigare con entrambi i fratelli, con le figlie più grandi e con le ex-mogli per questioni relative agli assegni di mantenimento e all’usufrutto dei diritti d’autore sui vecchi pezzi. Il quarto matrimonio e l’improvviso suicidio di Vernon, tutti e due risalenti al ’79, lo convinsero a lasciare per sempre gli Stati Uniti. Vi fece ritorno, in occasione di qualche tour, così come continuò a incidere lavori degni di nota (per esempio i devastanti Bullshot e Live At The Paradiso, entrambi usciti, l’uno su Visa e l’altro su RCA, sempre nel fatidico ’79), ma non trovo più l’ispirazione e la continuità manifestate nei dischi oggi di nuovo disponibili grazie a questo 3-Track Shack. Assieme agli assalti elettrici dei due lustri precedenti, i motivi (nel caso non si fosse capito) per cui lo inseriamo, oggi, tra i grandi esponenti dei cambiamenti, del tumulto e della forza espressiva appartenuti alla musica popolare del ‘900.

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