Foto: Lino Brunetti

In Concert

Mercury Rev live a Milano, 12/9/2018

Ci sono dischi che nella carriera di un’artista stabiliscono un prima e un dopo: ai Mercury Rev è successo con la pubblicazione di Deserter’s Songs del ’98, perchè fino a quel momento erano stati tutta un’altra band e in seguito, pur andandoci vicino con All Is Dream, non sono mai più riusciti a riavvicinarsi all’incanto e all’assoluta magia di quel lavoro che improvvisamente li catapultò al centro dell’hype. Secondo il nostro redattore Andrea Trevaini, “…Deserter’s Songs è uno dei dieci dischi che definiscono gli anni ’90…” e non c’è modo migliore di sottolineare l’importanza di un’opera che fece spendere alla critica parole entusiastiche ovunque e sedusse all’istante migliaia di ascoltatori, con un suono orchestrale e magnificente in antitesi con le tendenze del momento, che espandeva in maniera sognante e psichedelica le splendide melodie delle canzoni, come se Jonathan Donahue e Grasshopper si fossero di punto in bianco trasformati in dei piccoli Brian Wilson.

Purtroppo di quelle migliaia non c’era traccia al Serraglio di Milano lo scorso 12 settembre, dove i Mercury Rev hanno celebrato il ventesimo anniversario del loro capolavoro: in verità il locale era piuttosto affollato, ma tutto considerato, le proporzioni del progetto avrebbero meritato ben altra attenzione e dimensioni, perchè alla fine quanto accaduto è uno spettacolo a cui capita di assistere di rado. Ricreare dal vivo gli arrangiamenti originali era ovviamente impresa impossibile e i Mercury Rev nemmeno ci provano, pensando invece a una performance che non vuole essere una fedele replica, ma va piuttosto interpretata come il racconto dei momenti e della storia intorno al disco. Lo si intuisce subito dall’aspetto spoglio del palco dove si stagliano tre chitarre (due elettriche e un’acustica), le tastiere, un tamburo e qualche marchingegno elettronico e lo spiega ampiamente Donahue nelle lunghe e curiose introduzioni: l’idea è di tornare alla struttura minimale delle canzoni del momento in cui vennero concepite e riscoprire l’autentica meraviglia che si celava dietro alle elaborate orchestrazioni aggiunte in un secondo tempo.

In un certo senso, l’intuizione è geniale e non appena parte The Funny Bird è subito magia con l’elettrica di Grasshopper e quella del secondo chitarrista ad accompagnare l’acustica e il canto ispiratissimo di Donahue, mentre le tastiere riempiono gli spazi in modo che il suono sia comunque pieno ed elettrico, tanto che, con i dovuti distinguo, questa versione “totally stripped” di Deserter’s Songs non perde praticamente nulla del fascino seducente dell’originale. Le canzoni continuano irrimediabilmente a stregare il pubblico, mentre le parole di Donahue lo accompagnano nell’atmosfera del disco e allora è interessante scoprire che, come tutte le grandi idee, Deserter’s Songs accadde in seguito ad una serie di circostanze e quasi per caso, perchè la band si era giocata tutte le carte migliori nel precedente See You On The Other Side ed è dalla disillusione e dalla malinconia per il mancato successo di quell’album, che scaturì l’ispirazione per queste canzoni, che oggi suonano come pezzi di vita per la band ma anche per buona parte degli spettatori.  

La celebrazione di Deserter’s Songs non prevede la riproposizione dell’esatta scaletta dell’album, che non verrà neppure suonato per intero, ma ciò che qui conta è la sua storia ed allora acquistano un senso sia il preludio di Peaceful Night da See You On The Other Side e l’epilogo con la conclusiva e bellissima Dark is Rising dal successivo All Is Dream, così come le inattese versioni di Here dei Pavement e di Sea Of Teeth degli Sparklehorse contestualizzano la genesi del disco. Qui e là compaiono un flauto traverso, una tromba, una sega musicale nello spettrale strumentale I Collect Coins, un’armonica a sostituire un’assolo di sassofono e il tonfo di un tamburo a coronare il finale dissonante e lisergico di una grandiosa Opus 40, ma seppur in versione ridotta i Mercury Rev incantano la platea con l’elegante meraviglia di Hudson Line, di Endlessly, del ricercato pop di Delta Sun Bottleneck Stomp, per infilare uno dietro l’altro classici come Goddess On A Hiway, la magica Holes e la sopracitata grandeur di Opus 40. Il concerto si chiude in un’apoteosi di suoni, fumi e di luci, tra gli applausi scroscianti di un pubblico entusiasta, che per un’ora e mezza circa ha assistito ad uno show fantastico, riassaporando tutte quelle belle sensazioni provate ormai tanto tempo fa, ma mai dimenticate.

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