Interviste

Sonny Landreth: i legami del blues

Dopo quarant’anni di musica e una decina di album da titolare, Sonny  Landreth – virtuoso della sei corde, richiestissimo sideman, celebrato autore di canzoni – è tornato alle radici della propria ispirazione con il roccioso affondo elettrico di un Bound By The Blues pieno di energia, entusiasmo e amore verso il mondo delle «note blu». Abbiamo provato a riepilogare la sua carriera e a esaminarne il nuovo inizio con qualche domanda.


Dopo il «riassunto di stili» di Elemental Journey (2012), Bound By The Blues sembra un ritorno alle radici del blues elettrico e alle sue derivazioni classic-rock. Cos’ha ispirato questo tuo riappropriarsi delle basi del genere?
Qualunque sia il progetto al quale mi dedico, il blues, in forma di spirito o ispirazione, è sempre con me. Una volta deciso di realizzare un disco di puro blues, l’idea si è concretizzata in modo abbastanza veloce, anche perché, negli anni, ho imparato a fidarmi del mio istinto e delle direzioni in cui mi può portare. Volevo celebrare le mie radici e miei eroi, scrivendo qualcosa di nuovo oppure rivisitando le loro canzoni; volevo farlo da parecchio tempo, e questa volta, prima ancora di entrare in studio, ero convinto fosse arrivato il momento giusto.

Nella title-track fai i nomi di Muddy Waters e Jimi Hendrix (e Buffy Sainte-Marie), sono loro i pilastri della tua scrittura e del tuo modo di suonare?
Entrambi, certo. E molti altri! Pur non potendo citarli tutti, ho voluto menzionare Buffy Sainte-Marie, sia per il suo impatto artistico sia per l’importanza delle cause umanitarie da lei sempre sostenute. Penso non abbia mai raccolto gli onori che avrebbe meritato, quindi ho voluto, nel mio piccolo, omaggiarla. La mia scrittura, il mio stile, persino la confezione dei miei album deriva da loro tre, come da chiunque riesca a mettere insieme un repertorio in grado di stabilire una connessione profonda con le zone più remote della mia anima. A volte si tratta di legami imprevedibili.

Firebird Blues è un tributo a Johnny Winter. Tu apparivi nel suo Roots (2011), eravate amici? Quale attrezzatura hai usato per catturarne lo stile e l’essenza?
Sì, Johnny era importante per me. Mi ero innamorato dei suoi arpeggi sull’elettrica e del suo modo di ravvivare la tradizione dei «call & response», tipica del gospel o del primo country-blues, utilizzandola in senso rock and roll e attraversandola con la sua voce straordinariamente potente. Dal mio punto di vista, metterei Johnny sullo stesso piano di un Eric Clapton. Per Firebird Blues ho utilizzato la mia Gibson Firebird del ’64 con un vecchio amplificatore Marshall Plexi e cab 4×12. Lo stesso equipaggiamento che gli avevo visto adoperare nel 1970 a Houston, Texas.

Che strumenti hai usato, nel disco? Si riconoscono Strato, Gibson, un bel po’ di delay in Keys To The Highway… Cos’altro?
Soprattutto ho usato due prototipi della Strato firmata da me [la Stratocaster signature di Landreth, da lui progettata, è stata messa in produzione, in  un numero ristretto di esemplari,verso la fine del  2007, ndr], collegandole al caro, polveroso ma sempre efficiente ampli Demeter TGA-3, con gli isocab  di cui ti dicevo. Su Bound By The Blues e The High Time ho imbracciato due resofoniche, su Simcoe Street una Les Paul del ’60 amplificata con un Dumble modello Overdrive Special, un prodotto piuttosto difficile da reperire fuori dagli Stati Uniti. In Dust My Broom mi senti suonare la Strato del ’58 di Robben Ford, un prestito gentilmente (e fortunatamente!) protrattosi per qualche anno. Tutto il  delay arriva da un Fulltone Tube Tape (TTE), che è poi la riproduzione di un vecchio Echoplex senza rumore di fondo, o quasi. Sono contento di come tutti i suoni delle chitarre risultino diversi, freschi, riconoscibili, e allo stesso tempo complementari. Era quanto mi prefiggevo.

Quanto, nel tuo stile e nel tuo tocco, deriva dai luoghi in cui sei cresciuto, dalle tue radici di ragazzo del sud?
Tutto. Anche se magari non è evidente, qui, come lo è stato in altri dischi. Ma la cultura e le tradizioni del sud sono troppo influenti, troppo pervasive per immaginare di poterle trascendere.

Trovi l’articolo completo su Buscadero n. 379 / Giugno 2015

 

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