Foto: Rodolfo Sassano

In Concert

St Vincent live a Milano, 27/6/2018

Unica data in Italia, il concerto di St Vincent era senza dubbio una delle date più attese dell’estate milanese e, come tale, ripagata da un’affluenza di pubblico decisamente importante. Le ragioni di un simile successo sono molteplici ma, a parer mio, stanno soprattutto nell’incredibile stato di grazia artistico vissuto da Annie Clark in questo momento. Se ci pensate, sono ben pochi gli artisti contemporanei che possano da un lato vantare una credibilità indie tale da potersi definire inscalfibile (usando un termine ormai del tutto svuotato di significato, ma noi ci siamo capiti) e dall’altro usare a proprio piacimento e per fini puramente artistici i topos del mainstream.

A definire la sua statura artistica, non vi fosse bastato un disco che si staglia in maniera sempre più fulgida quale Masseduction, stanno provvedendo le ultime mosse dell’artista americana, dal video fiammeggiantemente sfacciato di Fast Slow Disco a, ovviamente, i concerti che sta portando in giro.

Sono show, questi, dove vengono veicolate idee importanti, ma lo si fa solo attraverso il linguaggio dell’arte, che non è solo quello musicale, ma pure quello visivo e performativo. Nulla viene lasciato al caso in questi concerti e tutto è finalizzato alla costruzione di concetti e, massì dai, messaggi, che vengono lasciati filtrare attraverso un gusto pop che lascia fuori qualsiasi tentazione predicatoria, preferendogli un cortocircuito sensoriale ellittico eppure magistralmente chiaro. 

La sua è arte pop costruita su più livelli, livelli una volta tanto interconnessi tra loro: puoi ballare, puoi liberarti, puoi pensare e puoi commuoverti, spesso tutto in una botta sola. Lei ci mette tutto, compreso il suo corpo, elemento centrale di un discorso sul sesso, l’identità, il ruolo che abbiamo nella società, il modo in cui ci smarriamo in un oceano atomizzato di input, informazioni e ruoli che aspettano solo di essere messi in discussione.

Ma anche qui, forse, mi sto facendo anch’io ingabbiare in un cliché, perché la verità è che gli attuali concerti di St Vincent sono altamente coinvolgenti, eppure sfuggenti più che mai, sono un gioco di seduzione e manipolazione del suo stesso pubblico, sono un affastellarsi di contrasti, sia dal punto di vista musicale (l’umano e il sintetico continuamente interconnessi in un continuo ribaltarsi di situazioni), che da quello concettuale.

Sul palco si presenta con una tuta in latex decisamente sexy, ma il suo è un essere provocante sempre un po’ algido, cerebrale, a volte come trattenuto, a volte liberato in un’animalità senza freni (quando si contorce a mò di guitar hero su una delle innumerevoli chitarre colorate cambiate pezzo dopo pezzo, ad esempio). Con lei c’è la band che ormai da tempo l’accompagna: Toko Yasuda a basso, tastiere e backing vocals; Daniel Mintseris a synth e tastiere e Matt Johnson, già con Jeff Buckley, alla batteria. Gli ultimi due sono celati da una maschera spersonalizzante, con parrucchetta bionda in testa, che in pratica li lascia senza sembianze precise, come fossero dei manichini.

In termini musicali, la parte del padrone è tutta per Masseduction, ma non solo per quello che riguarda i pezzi da quel disco tratti, ma pure per come vengono riarrangiati molti dei brani tratti dai dischi precedenti. Il sound si palesa quindi attraverso un inesauribile gioco di scambi tra sintetico e umano, con le due parti avvolte in uno scontro nella quale è difficile dire chi ne sia uscito vincente. Giochetto stupido in fondo, ma non si può negare che in ultima istanza siano le componenti umane e istintive quelle che rimangono impresse con più forza, la prima attraverso una voce capace d’indurre brividi, la seconda attraverso uno stile chitarristico funambolico e personalissimo, dai timbri favolosi e urticanti, specie nei febbrili assoli ai quali si accennava sopra.

A partire da una Sugarboy dalle scansioni quasi industrial messa in apertura, per quasi tutto lo show è questa tensione continua a mantenere salda l’eccitazione, veicolata da movenze icastiche e da gesti dal simbolismo politico, come il pugno alzato in Masseduction o la dedica a ragazzi, ragazze e a chi non rientra in queste categorie di Fast Slow Disco.

Questa messa in campo della seduzione e di tutte le sue implicazioni si allenta solo nel bis finale, quando St Vincent sembra quasi voler lasciare spazio alla sola Annie Clark. È qui che, prima di una bella versione di New York, si mette a intonarne a cappella la prima strofa citando Milano, il Plastic e il quartiere Ticinese. Ed è sempre nel finale che pare definitivamente spogliarsi di ogni maschera, lasciando che a riempire il cuore dei presenti siano solo i sentimenti espressi da una Hang On Me per voce e piano, ma soprattutto da una splendida Happy Birthday, Johnny e da una commuovente Severed Crossed Fingers, entrambe per sola voce e chitarra. Una chiusa perfetta per un’ora e mezza assolutamente memorabile.

 

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