foto di Cristina De Maria

In Concert

Steve Earle live a Strade Blu Festival, Faenza 31/07/2014

Siamo in parecchi, nell’ultimo giovedì di luglio, a gremire la faentina Piazza Nenni in occasione del concerto acustico di Steve Earle. E al di là dei numeri, delle facce (tutte piuttosto stagionate), dell’ambientazione dello spettacolo, viene da chiedersi cosa si attendano, i non pochi spettatori intervenuti, dal rocker nato in Virginia e oramai texano a tutti gli effetti, se la nostalgia di qualche vecchio classico, la trasparenza delle sue posizioni politiche, la tempra ostinata del ribelle anti-establishment, oppure, ancora, la semplice verifica dell’integrità di un talento responsabile di alcuni tra i brani più memorabili di trenta e passa stagioni di musica americana.
Intanto, da vero signore disponibile a recuperare un’esibizione solista del giorno prima (annullata a causa del maltempo) mettendosi al servizio di un altro headliner, a riscaldare l’atmosfera ci pensa Howe Gelb, per l’occasione accompagnato dalla batteria di Steve Shelley (Sonic Youth) e dalla pedal-steel della danese Maggie Björklund. Il set del musicista dell’Arizona, per lo più impegnato a estrarre dalla tastiera lunari citazioni da Nino Rota, Thelonious Monk e Garth Hudson, è, al solito, un piccolo manuale di artifici da istrione, ma di un istrionismo tutto giocato sulla sottrazione, sull’ironia, su di un candore quasi lunare, tra Jacques Tati e Mark Eitzel, grazie al quale le canzoni del recente The Coincidentalist (2013) si sciolgono in deliziose e mai prevedibili fantasie cromatiche dove il deserto dell’Arizona si colora di swing e be-bop.
Quando poi arriva davanti al microfono Earle, in precedenza spettatore attento del suo inaspettato opener (anche questa è serietà), e senza nessun fronzolo, nessun trucco, anzi, appesantito nel fisico e nella voce, attacca con la malinconia cruda e tagliente di due ballate rock ridotte all’osso come The Low Highway21st Century Blues, e pochi minuti dopo prosciuga la melodia di My Old Friend The Blues in un concentrato di granulosa essenzialità folk, acumina gli spigoli di Taneytown eludendo l’enfasi per sottolinearne la drammaticità, spoglia la dolcezza hillbilly di Rex’s Blues (Townes Van Zandt) e ne evidenzia il carico di disperazione, allora appare chiaro cosa l’artista abbia da offrire, e cosa i suoi estimatori stiano aspettando: la dimensione umana, morale, etica persino, di un sopravvissuto (alle droghe, ai matrimoni, agli anni selvaggi), ancora tra noi per testimoniare la possibilità di vivere cinque o sei vite in contemporanea e raccontarle in una canzone, senza mai rinunciare alla volontà di mettere assieme, quasi fosse un dovere civile, impegno pubblico e confessione privata, emozioni personali e denuncia politica; l’onestà di un essere umano per il quale alzare il pugno sinistro non indica un ammiccamento, o la conferma di un rituale ormai privo di significato, ma un’inevitabile dichiarazione d’appartenenza con cui fare i conti. In questo senso, lo show di Earle non può non essere antispettacolare, intransigente, volutamente monocorde, privo di qualsiasi concessione alla retorica. Difatti i brani più movimentati, su tutti le attese Copperhead Road, Devil’s Right Hand e I Ain’t Ever Satisfied, sono apparsi meno convincenti delle sofferte prolusioni folkie di Goodbye, Ft. Worth Blues, Someday, Billy Austin (quest’ultima condita da un ringraziamento particolare all’Italia per il sostegno dimostrato al nostro nella sua lunga battaglia contro la pena di morte). Neppure gli inconvenienti tecnici (a un certo punto s’è scaricata una delle unità amplificatrici D.I.) o la demenza di un gruppo di scalmanati di continuo intento a urlare richieste e idiozie (talmente fastidiosi, sull’altrimenti sontuoso romanzo sudista di Dixieland, da costringere lo stesso Steve a zittirli in malo modo) hanno potuto in alcun modo intaccare l’incantesimo generato da un’ugola aspra e colma di raucedine, da una Martin imperlata di sudore, da un’armonica lacerante e da un mandolino profumato d’Irlanda, tutti incastrati nella ripetizione ipnotica di accordi, fraseggi, movimenti di fingerpicking tesi a creare una connessione naturale tra la figura sul palco e gli ascoltatori della piazza.
La tensione, diventata quasi insostenibile sull’accoppiata tra South Nashville Blues e CCKMP (Cocaine Cannot Kill My Pain), due vere e proprie discese agli inferi interpretate in chiave country-folk l’una, attraverso un selvaggio e sferzante ululato blues alla Suicide l’altra, si è sciolta sulla conclusiva Christmas In Washington, con gli spettatori radunati sotto il palco e le ombre di Guy Clark e Woody Guthrie evocate dal suono ruvido e malinconico della chitarra del protagonista. Ogni gioco va giocato secondo le sue regole, e questa volta Steve Earle ha scelto di puntare sul rigore e sulla disciplina. Non avrà fatto ballare nessuno, forse, ma ha trovato il modo giusto per ricordarci ancora una volta come dolore e verità, bellezza e tristezza, altro non siano se non le due diverse facce di un’unica medaglia chiamata vita.

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