foto: Valentina Bracchi, Andrea Trevaini

Interviste

Stu Larsen: incontro con un Australian Troubadour

Concerto di Stu Larsen al Serraglio- Milano 22/10/2017

Ho molto apprezzato il nuovo disco di Stu Larsen, intitolato Resolute (Nettwerk Music), un altro dei musicisti che arrivano in Europa dalle sponde lontane dell’emisfero Australe. Le sue canzoni intimistiche, nello stile di Passenger e Bon Iver, sono davvero un viatico per queste tiepide giornate autunnali in una Milano inquinata che mi accoglie nella sua periferia in una domenica, con un traffico degno del giorno feriale.

Grazie a Valentina di Ja La Media ho opportunità’ di incontrarlo e di chiacchierare amenamente nell’accogliente backstage del Serraglio, nel corso del suo impegnativo tour europeo che lo vede impegnato in 50 concerti nell’arco di 70 giorni!

«Questo è il mio modo di vivere» mi dice Matt accogliendomi calorosamente.
«Amo davvero girare il mondo, solo, con la mia amata chitarra ed incontrare ogni giorno persone diverse, fare nuove amicizie, allacciare rapporti, trovare anche, quando capita, motivo per nuove canzoni».

Ma trovi pure tempo di tornare in Australia?
Si, quest’anno ci ritornerò più volte, perché finito il tour europeo ne farò uno in Australia e poi ci dovrò tornare per altri motivi, non ultimo per il matrimonio di mia madre.

Qual è il tuo pubblico?
Ho una larga base di fans in Europa, mi piace suonare (un po’ anche per forza!) in locali medio-piccoli da 100-200 posti, dove il contatto con il pubblico mi permette un feedback immediato e mi fa vivere il concerto in mezzo alla gente.

Narrami un po’ dei tuoi inizi…
Ho cominciato a cantare da piccolo nel coro della chiesa locale, poi visto che ero molto timido, da adolescente mia madre mi ha praticamente obbligato ad imparare a suonare la chitarra, ho cominciato a 14 anni, all’inizio non mi piaceva, ma poi dopo due anni ho dovuto ringraziare mia madre per il dono che mi aveva fatto e ho cominciato a comporre e suonare. Terminati gli studi ho cominciato a lavorare, dapprima in un supermarket, poi in banca. Ad un certo punto mi sono detto: sto bene, ho un buon lavoro, ma resisterò a fare questa vita per i prossimi 50 anni? Ebbene mi sono detto: no! Allora ho preso la mia chitarra e me ne sono andato per le strade del mondo a suonare le mie canzoni. Mi sono dato un periodo di due anni per riuscire a sfondare, se non ci fossi riuscito me ne sarei tornato al mio triste impiego.

Ebbene il miracolo, al menestrello folk, è riuscito davvero.
«Gran parte del merito è dovuto al mio incontro con Mike Rosenberg aka Passenger, l’ho incontrato molti anni fa, quando non era ancora famoso e ho cominciato ad andare in tour con lui, gli facevo da tecnico del suono, da autista, da manager (in pratica ero il suo tuttofare) e in cambio mi faceva aprire i suoi concerti. Ora è famoso ma siamo ancora amici e ci frequentiamo, lui ha lavorato sul mio disco precedente Vagabond».

Perché hai intitolato questo tuo disco proprio Resolute?
Il precedente si intitolava Vagabond e fotografava il mio modo di vivere e suonare, sempre in giro per le strade del mondo. Però ora ho capito che posso fare le cose più seriamente e sono diventato più risoluto nelle mie scelte musicali, ecco da qui la genesi del titolo.

Parliamo poi delle sue canzoni e mi conferma che lui ama i suoni semplici, le chitarre acustiche, poche percussioni, anche le sue liriche sono semplici, agresti talvolta e narrano piccoli stralci di vita quotidiana e di rapporti affettivi.
Gli dico che alcune delle sue canzoni come Chicago Song e What If mi pare che abbiano un imprint folk intimistico che mi fa ricordare Donovan, mi risponde sorpreso: «Ah Donovan; si l’ho sentito nominare, ma non ho mai ascoltato le sue canzoni, adesso che me lo dici le cercherò» (Beata gioventù! Mi viene da dire).

Poi ci lasciamo e lui si prepara per il concerto che confermerà pregi (molti) e difetti (pochi) di Stu Larsen. L’ambiente freddino del Serraglio non aiuta il suo folk lieve e il concerto molto lungo, con una scaletta di circa 15 brani, tratti prevalentemente dai suoi due ultimi dischi, soffre un po’ del fatto di essere un live alone acustico, tranne un paio di canzoni eseguite con l’artista che ha aperto la serata, Tim Hart (voce e batterista dei Boy & Bear) anche lui acustico. Comunque Aeroplanes, Chicago Song e la meravigliosa Going Back To Bowenville confermano la sua preziosa vena cantautorale folk, mentre brani che sul disco erano molto più strutturati come l’epica Down By The River soffrono un po’ la riduzione solo-acustica. Buon successo di pubblico e spero di poterlo rivedere ancora, magari con un piccolo combo ad accompagnarlo, le sue canzoni live ne guadagnerebbero parecchio.

 

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