Recensioni

The Decemberists, What A Terrible World, What A Beautiful World

the decemberistsTHE DECEMBERISTS
What A Terrible World, What A Beautiful World
Rough Trade/Self
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Chiusa un’annata discograficamente eccellente quale il 2014, si riparte subito nel migliore dei modi con l’arrivo del nuovo album di una delle band sicuramente più amate da queste parti: The Decemberists. La formazione guidata da Colin Meloy– e completata da Chris Funk, Jenny Conlee, Nate Query e John Moen– è titolare di una discografia assolutamente impeccabile (su cui a breve torneremo attraverso una retrospettiva), composta da sette album (con quest’ultimo), un doppio live e svariati EP, che quattro anni fa trovava un picco memorabile (anche commerciale, numero 1 nella classifica di Billboard) nello stupendo The King Is Dead, già nostro disco del mese.
Quattro lunghi anni in cui, oltre ad essere stati impegnati nel lungo tour che ha fruttato il live We All Raise Our Voices To The Air, hanno collaborato a colonne sonore (The Hunger Games), sono apparsi come cartoni animati in una puntata dei “Simpsons”, hanno ricaricato le batterie, permettendo inoltre alla Conlee di fronteggiare con successo la sua battaglia contro il cancro al seno che l’aveva colpita. What A Terrible World, What A Beautiful World è un disco che Meloy stesso ha dichiarato essere nato in condizioni diverse da quelle usuali. Confermato l’abile produttore Tucker Martine, con cui spesso hanno lavorato in passato, anziché registrare il disco in un’unica session, stavolta sono partiti con una seduta di registrazione di soli tre giorni: «Solitamente prenotiamo lo studio per quattro o cinque settimane e registriamo tutto il disco. Questa volta abbiamo cominciato prenotando lo studio per soli tre giorni, non sapendo cosa volessimo registrare. Non c’era una direzione, né una visione; volevamo semplicemente vedere cosa ne sarebbe uscito». Questo metodo informale ha finito per caratterizzare la costruzione di un po’ tutto l’album, vario ed eclettico quanto mai, e diverso pure liricamente, con Meloy, che ricordiamo essere anche uno scrittore, meno narrativo e più personale ed autobiografico del solito.
Il risultato lascia letteralmente a bocca aperta ancora una volta, confermando Colin Meloy uno dei più grandi songwriter della sua generazione – le sue canzoni starebbero in piedi tranquillamente anche solo voce e chitarra – e la band che l’accompagna una macchina di soluzioni sonore sempre coinvolgenti ed appassionanti. E del resto, un disco che parte con un pezzo come The Singer Addresses His Audience – inizio semplice con voce e chitarra acustica, ingresso carezzevole di un violino e successiva ascesi epica tra esplosioni rock orchestrali, cori ed uno scorticato solo di chitarra – non potrà far altro che palesarsi quale capolavoro. Cavalry Captain è una bella rock song melodica, incalzante e contrappuntata da archi e fiati; Philomena un gioiellino sixties pop, reso frizzante da coretti doo wop; Make You Better, che già tutti conoscerete visto che è stato il primo singolo, rinnova la parentela con certi R.E.M. (sicuramente una delle loro influenze), ponendo la sua magistrale melodia tra trame elettroacustiche, lavorio pianistico e crescendo rock. Ecco, se ci volessimo abbandonare ad un gioco impertinente, volendo fare un parallelismo tra un disco dei R.E.M. e questo dei Decemberists, allora diremmo che What A Terrible World… è per la band di Meloy il loro Automatic For The People: simili l’alternanza tra ballate e più estroverse escursioni rock; l’equilibrio tra ricerca melodica pop e rinnovamento delle radici; la bravura nel gestire arrangiamenti basilarmente elettroacustici, poi arricchiti di sontuosità orchestrale e innumerevoli dettagli sonori.
Lake Song è una ballata atmosferica ed introspettiva, guidata dal piano, dal contrabbasso e con un violino e gli archi ad accrescerne la portata emozionale; Till The Water Is All Long Gone rimane nel territorio delle ballad acustiche, con una chitarra blues, stavolta, a giocare con la voce di Meloy; in The Wrong Year si fa largo un accordion ed il tono si fa subito più pimpante. Quasi tutta la parte finale dell’album è quella dove più in primo piano viene fuori il lato roots della loro musica: si parte con la bellissima Carolina Low, un folk blues con un accenno di gospel; notevole anche la movimentata Better Not Wake The Baby, punzecchiata da un banjo saltellante e da una fisarmonica; Anti-Summersong è un gran pezzo folk-rock dalle ascendenze irish, con un’armonica insistita a perdersi fra le chitarre; Easy Come, Easy Go si sposta in paesaggi western, tra twang guitars e orizzonti bruciati dal sole; Mistral ha una partenza da grande ballata dylaniana, con l’organo ed il piano sugli scudi, ma poi si risolve in un arioso pezzo toccante e melodico, con brevi assoli di piano e chitarra.
Il finale è affidato alla sospesa ed emozionante 12-17-12– pezzo che contiene la frase del titolo dell’album, con un testo ispirato dal senso di impotenza provato in occasione della drammatica sparatoria nella scuola di Newtown – e ad A Beginning Song, ennesimo brano straordinario che parte sostanzialmente acustico per crescere attraverso un turbinio di suoni e melodia. È un disco di grandissimo spessore What A Terrible World, What A Beautiful World, che inevitabilmente finirà col crescere con gli ascolti, dispiegando sempre nuovi particolari.
A questo punto, l’appuntamento con il loro unico concerto italiano, il primo marzo ai Magazzini Generali di Milano, si fa letteralmente imperdibile.

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