Foto: Lino Brunetti

In Concert

The Lemonheads live a Milano, 26/2/2019

Ancor prima che i cancelli del Biko vengano aperti, tra i tanti che già stazionano fuori in attesa di entrare, serpeggia un po’ di timore circa quello che succederà durante la serata. Le cronache del concerto della sera prima a Bologna ci parlano di un Evan Dando completamente ubriaco, all’inizio svogliato, poi addirittura rissoso col pubblico, forse a causa di un paio di battute captate,  magari travisate, provenienti dall’audience tra un brano e l’altro. Dando, si sa, è uno dei casi più eclatanti di autosabotaggio della propria carriera che la musica degli ultimi trent’anni conosca: la difficoltà a gestire il successo, probabilmente una decisa avversione al conformarsi a quanto gli veniva chiesto dal music business tutto, demoni personali sedati a botte di alcol e droghe, alcune delle ipotetiche cause del progressivo scivolamento ai margini, per un uomo che per un certo periodo ha avuto il mondo ai suoi piedi e ha fatto quasi di tutto per spostarsi da quella posizione.

Inutile dire che, se lo amiamo in modo particolare, è non solo per essere uno dei più grandi songwriter della sua generazione, ma anche per questa sua umanissima fragilità, per un’autenticità palpabilissima e per quel male interiore, con cui non è difficile empatizzare, di cui porta addosso segni evidenti. È chiaro che questo rende i suoi concerti un piccolo terno al lotto, può andar male, come può andar bene, in questo alla stessa maniera di quello che accade con altri ben conosciuti outsider del suo stampo (viene in mente, ad esempio, Cat Power). Personalmente, questo irrompere della “vita vera” on stage, l’ho sempre trovato un di più, una cosa che fa aumentare la vicinanza tra me e un artista, piuttosto che farmela considerare, come accade a molti, la patetica messa in scena del proprio fallimento. Credo ci sia di mezzo, prima ancora che una visione della musica, una visione della vita in questo, ma, come dire, ad ognuno il suo.

Intanto rompiamo gli indugi e diciamo subito che qui a Milano è stata indubbiamente una serata si. Dopo l’anonimo set acustico dello svedese Karl Larsson, voce della band Last Day In April, i Lemonheads versione 2019 salgono sul palco e subito investono la sala, che nel frattempo s’è riempita in ogni dove, con una versione super elettrica di Hospital. Barba sfatta, capelli lunghi arruffatti sul viso segnato, camicia e jeans, Dando appare un po’ distante e spaesato, per certi versi addirittura un pelo imbarazzato, quasi sapesse di cosa si parlava prima di entrare. A un certo punto si sente in dovere di rassicurarci o di giustificarsi: “Ieri a Bologna stavo male, ma oggi sono ok, sto bene”. Ok, prendiamo atto, siamo contenti.

Con lui sul palco la sezione ritmica è composta da due giovincelli, i quali però sono perfettamente in grado di mantenere un ritmo solido e quadrato, con qualche buona accelerazione da parte del batterista, a volte anche alla seconda voce. È un veterano invece il chitarrista che sta con loro, visto che è quello stesso Chris Brokaw che tanto abbiamo amato da protagonista nei dischi di band da luccicchio agli occhi come Come, Codeine e, in tempi più recenti, Dirt Music. La sua sola presenza rassicura non poco, come quella di un regista discreto che prova a tenere a bada le intemperanze del suo attore. A quello fanno pensare le occhiate bonarie, ma a volte un filo ansiose che di tanto in tanto lancia verso Dando. In realtà più scorrono le canzoni, più il leader della formazione pare sciogliersi. A dispetto di tutto quello che ha combinato, la voce c’è ancora tutta e solo episodicamente appare poco convinta o sul filo della stonatura (accade in un paio di pezzi dove per un attimo Dando dà l’impressione di essere altrove).

Per quasi tutto lo show, invece, appare convinto, non è né troppo istrionico, né parla molto col pubblico, però fa cantare la sua chitarra, dividendosi gli assoli con Brokaw e tenendo il volume e il livello di distorsione al massimo, per un vero tuffo nel sound anni 90. In realtà non è tutto così, visto che alternano alcuni dei loro hit più famosi a gioiellini meno conosciuti e a un gran numero di cover, finendo così per scivolare verso territori country (con Abandoned di Lucinda Williams o I Just Can’t  Take It Anymore di Gram Parsons, ad esempio), sixties (una torrenziale Old Man Blank di Bevis Frond), folk (con la Speed Of The Sound Of Loneliness) o sottilmente psichedelici (la Can’t Forget degli Yo La Tengo).

Bella ed emozionante la lunga parentesi acustica, in parte eseguita dal solo Dando, in parte in coppia con Brokaw, un momento intimo e toccante, dove quel misto di ritrosia e comunicativa del personaggio si è vista in maniera particolarmente evidente. Poi il resto della band viene richiamata sul palco e si ricomincia a macinare potenza, con una Big Gay Heart cantata in coro col pubblico, ad esempio, fino ad una rugginosa e deragliante versione di Straight To You di Nick Cave, coi decibel veramente oltre il livello di guardia.

E finisce, così, tra tonnellate di distorsione, questa due ore di Lemonheads. Poi Dando esce nel cortiletto del Biko e si concede chiacchiere e foto con chiunque gli si avvicini (e sono in tanti). Chissà se prima o poi ci proverà a pubblicare qualche canzone nuova. Che sia o non sia così, comunque ti vogliamo bene Evan.

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