Recensioni

The Sonics, This Is The Sonics

thesonicsTHE SONICS
This Is The Sonics
Re:Vox
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«Vorrei fosse di nuovo il 1965», cantavano, quindici anni dopo la fatidica data, i Barracudas di Jeremy Gluck e Robin Wills, tra i primi a dar voce (peraltro dall’Inghilterra) a un sentimento di intensa nostalgia nei confronti delle stagioni del primo rock americano, quelle in cui qualsiasi gruppo di adolescenti (più o meno brufolosi), dal chiuso di un garage o di una cantina, poteva liberamente mettere  in scena la propria rivoluzione sonora ricorrendo a un beat ossessivo, una tonnellata di istinto e un frastuono micidiale.

«Le coppie iniziarono a ballare. Erano venute per quello, ma in fondo non ero mai stato convinto che l’avrebbero fatto; almeno, non al suono di una musica in parte creata da me. Quando fu chiaro che non ci avrebbero sbattuto giù dal palco a forza di fischi, provai una crescente euforia, vicina all’estasi. Da allora ho assunto abbastanza stupefacenti da stroncare un bue, ma neanche i migliori sono stati in grado di eguagliare quella prima scarica di adrenalina. Noi suonavamo. E  loro ballavano», scrive Stephen King, descrivendo il primo concerto di un quattordicenne di campagna a una festa da ballo per coetanei, nell’ultimo Revival (Sperling & Kupfer, pp. 472, €  19.90), e in effetti, queste erano le sensazioni, questa l’innocenza, questa la forza primitiva, inspiegabile e incontenibile di un suono nato dal basso e fatto per rimanervi. E questo, per tornare ai Barracudas, era anche il 1965, l’anno, tra le altre cose, dell’esordio su LP dei Sonics, scalmanato quintetto protopunk di Tacoma, Washington, in circolazione dal 1960 e, sebbene contemporaneo e  riconducibile raggio d’azione di colleghi quali Trashmen, Kingsmen o Paul Revere & The Raiders, molto più scioccanti, violenti e pericolosi di tutti loro messi assieme.
Costruiti su un micidiale intreccio di sassofoni  battenti e chitarre assassine, pianoforte anfetaminico e, in luogo delle semplici voci, schiamazzi disumani, i due album consegnati alle stampe dal gruppo in un biennio appena – Here Are The Sonics (1965) e Boom (1966) – vomitavano rhythm’n’blues alla velocità della luce, dando vita a un vortice di riff e latrati dove la rabbia dei bluesmen più cavernosi esplodeva al ritmo (raddoppiato) dei rock’n’roll boogie  animaleschi di Little Richard. Per colpa di un terzo, malriuscito disco (ripudiato dalla band), a causa di molteplici obblighi di leva nonché in ragione, incredibile a dirsi, di impegni universitari da onorare (!), i Sonics si sciolsero molto presto e, nonostante varie reunion dal vivo per lo più promosse dai loro numerosissimi estimatori nel mondo dello spettacolo e della musica, e malgrado alcuni di loro abbiano continuato a esibirsi con regolarità nei locali del nord-est statunitense, non considerarono seriamente  l’ipotesi di rimettere in piedi la vecchia formazione fino al 2007.
Negli anni successivi, grazie anche all’ingresso del bassista Freddie Dennis (Freddie &  The Screamers) e del batterista Dusty Watson (The Press) nella line-up stabile del gruppo,  l’organo e la voce di Gerry Roslie, la sei corde di Larry  Parypa e il sax di Rob Lind sono  tornati a ruggire con una certa continuità. Chiunque li abbia visti dal vivo, per esempio al Festival Beat di Salsomaggiore  nell’estate del 2012, oltre a essere rimasto con buona probabilità sconvolto dalla forma fisica dei tre “ragazzacci”, avrà capito subito per quale motivo, negli ultimi trent’anni, i Sonics siano stati citati come fonti insuperabili di influenza da Kurt Cobain e Jack White, Cramps e Flaming Lips, Screaming Trees e Hives e centinaia d’altri, oppure menzionati a chiare lettere, in altrettante canzoni, da due gruppi agli antipodi come i revivalisti Fleshtones (American Beat ’84) e i modernisti LCD Soundsystem (Losing My  Edge).

Detto questo, This Is The  Sonics, il terzo album “ufficiale”  della band se, come andrebbe  fatto, escludiamo dal conteggio il già citato (e rinnegato) Introducing The Sonics (1967) e i remake di vecchi brani del pur piacevole (e tutto sommato superfluo) Sinderella (1980), rappresenta comunque una sorpresa: non solo perché è il disco più cattivo, feroce e dinamitardo che possiate sentire nel 2015 (dettaglio  forse, data l’imbarazzante piattezza di tanti lavori in teoria «urticanti», «selvaggi», «annichilenti» etc. etc., non così sorprendente), quanto per la grinta affilata messa in mostra da Roslie e soci, secondo l’anagrafe ultrasettantenni ma qui impegnati a macinare r’n’r  e a ringhiare punk-blues con l’energia di una combriccola di sedicenni. Attenzione: non si tratta di un’iperbole usata per mascherare la verità magari amara ma rispettabile di un’opera confezionata da «nonnetti» cui si vuol bene per le glorie passate: This Is The  Sonics è una bomba, punto e a capo. Prendete uno dei brani originali, dalla furiosa Bad Betty alle devastanti  fucilate errebì di Be A Woman (per non dire del tumultuoso, ondeggiante inno garagista Spend The Night), o una delle diverse cover in programma, l’ipercinetico sbriciolamento di You Can’t Judge A Book By The Cover (Willie Dixon) come il deragliante cow-punk di Leavin’ Here (Eddie Holland): a dispetto delle carte d’identità, sembra davvero di essere tornati al 1965, in un ciclone di febbrili sincopi derivate dal gospel, boogie epilettici, tempeste r&b cadenzate da un sax allucinato.
Se The Hard Way polverizza i Kinks in una maniacale apocalisse rockista dal ritmo insostenibile e Look At Little Sister disintegra la vecchia hit di Hank Ballard &  The Midnighters in un frenetico disastro rock-boogie istintivo e  irrazionale, i brani nuovi, tutti esagitati come non mai, sputano in faccia al tempo che passa col ghigno ferino di chi è interessato soltanto a sapere dove potrà procurarsi la prossima birra (piuttosto esplicita, al riguardo, la sanguinaria Save The Planet).

Sembra il 1965 ma siamo nel 2015, si obietterà, e dopo cinquant’anni siamo cambiati noi, è cambiata la musica, è cambiato il mondo. Già: fare tabula rasa di tutti i cambiamenti sopraggiunti, o riassumerli per sommi capi, non spetta né a noi né ai Sonics. Il loro non è un anacronismo autoconsolatorio, generato da uno stile mai riformatosi perché a corto d’ispirazione. This Is The Sonics esulcera il concetto di tempo, lo azzera per recuperare in modo anche strano, barbaro e lontano, corrosivamente inattuale, l’essenza stessa del rock’n’roll, la primordiale «scarica di adrenalina» alla sua radice. Scusate se è poco.

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