Foto © Lino Brunetti

In Concert

Viagra Boys live a Milano, 1/12/2021

Il rock’n’roll, nella sua forma primigenia, non è una faccenda troppo intellettuale. È energia pura, ritmo che ti scuote le budella, rumore squassante che funge da forza liberatoria. È una di quelle cose che, ce ne siamo ben resi conto nell’ultimo anno e mezzo abbondante, per esprimersi al suo meglio ha bisogno del suo tempio, di officianti credibili, di un pubblico libero di scatenarsi senza troppe uggie. Infine, se non ci sono sedie a fare da intralcio è molto meglio. Il rock’n’roll, giusto o sbagliato che sia, non tiene troppo in conto le regole anti COVID e appena può se ne fa beffe.

I Viagra Boys in Italia c’erano già stati in epoca pre-pandemia, quando avevano da poco pubblicato il primo album. A Milano avevano suonato all’Ohibò, bellissimo circolo Arci oggi purtroppo chiuso, e io, mannaggia a me, me li ero stranamente persi. Sono tornati ora, in questo strano periodo in cui si spera che il peggio sia alle spalle, ma dove persiste il costante spauracchio di una nuova ondata, di nuove chiusure, di un ritorno a quell’anormalità che è stata la normalità di quest’ultimo, tragico biennio. Tre date, Bologna, Roma e Milano, tutte e tre sold out, sintomo senz’altro della popolarità acquisita dalla band svedese, ma forse anche della voglia di godersi il più possibile quanto ci viene concesso, in questo sì davvero una cosa simile a quanto succede in tempo di guerra.

Mentre i Magazzini Generali di Milano si vanno stipando di gente, passate da non molto le 21, sul palco salgono le Automatic, trio di ragazze di Los Angeles autrici di un album su Stones Throw, Signal, uscito un paio d’anni fa, che senz’altro merita attenzione se siete fan del (post) punk più scheletrico e ipnotico, dove però non manca una melodica componente pop (potrebbero ricordarvi il Moon Duo). Con assetto tastiere, basso, batteria, le tre, con tecnica a dir poco basica e rudimentale (la bassista non credo sia mai andata oltre le due note a canzone, ma spesso si è limitata a una, e qui sta il bello!), hanno messo in scena un pugno di brani ipnotici e sottilmente malsani, magari non prorompenti in termini assoluti, però capaci di conquistare con un sound primordiale ed efficace. Me le ero perse a Le Guess Who?, dove facevano parte del programma curato da John Dwyer, e mi ha fatto piacere ritrovarle qui.

Per quanto niente male, è stata però tutt’altra faccenda quando sul palco sono saliti i Viagra Boys, i quali proprio di recente hanno dovuto affrontare la scomparsa di uno dei membri fondatori della band, il chitarrista Benjamin Vallé, in realtà già da un annetto parzialmente allontanatosi dai compagni, probabilmente proprio per condizioni di salute, tanto che pure al loro disco più recente, l’ottimo Welfare Jazz, uscito quest’anno, aveva collaborato assai poco. 

Gli basta soltanto un pezzo, la sferragliante Research Chemicals, con cui attaccano, per dare corpo con la loro musica a quell’idea di rock’n’roll di cui scrivevamo all’inizio. L’aspetto è quello di teppisti punk, in alcuni casi neppure più di primo pelo (la band si è formata nel 2015, ma sulle ceneri di diverse altre formazioni già in giro da tempo). A prendersi la scena è ovviamente il frontman di origini americane Sebastian Murphy, corpo tutto tatuato, pancione da birra (e difatti durante il concerto ne berrà diverse), occhiali da sole sempre indossati e un piglio guascone filtrato dall’essere irremediabilmente un po’ sfatto.

Questo è l’ultimo concerto qui in Italia e voi di Milano non volete fargliela vedere a quei tipi di Roma e Bologna quanto siete meglio?, arringa la folla Murphy fin dalle prime battute, ritrovandosi subito senza la canotta sbrindellata che indossava, senza scarpe e in mezzo al pubblico che gli si avvinghia alla pancia, mentre lui gli sputa e sbrodola birra addosso. Sembrerebbe lo scenario di una dissoluta festa alcolica, non fosse che lui è un cantante superiore alla media tra quelli di questa ennesima ondata post-punk e la band che gli sta alle spalle, altri cinque brutti ceffi a sax, chitarra, basso, batteria e tastiere, suona eccome, tra l’altro spesso dilatando le canzoni a dismisura.

Insomma, si tratta di spettacolo vero e proprio, per uno dei concerti indubbiamente migliori a cui ho assistito quest’anno, visto, come si diceva, il suo avvalersi di una dimensione ludica e ignorante (a un certo punto, vengono lanciati dei mandarini sul pubblico dal batterista Tor Sjödén: ma perché???), che ha portato a mille il tasso dei divertimento, non a discapito della componente musicale però.

I Viagra Boys intanto hanno le canzoni, e pure qui l’hanno dimostrato con pezzi irresistibili come Ain’t Nice, strumentali ipnotici e fiammeggianti come 6 Shooter, sputacchi punkettosi come Sports o Secret Canine Agent; ma poi hanno anche messo in mostra una tendenza alla dilatazione, all’improvvisazione e in generale al non essere ligi alle versioni in studio che personalmente ho trovato il vero valore aggiunto e che ha reso ancor più chiare le ascendenze della loro musica in generi che di certo non si limitano all’universo post-punk, ma che abbracciano rhythm & blues, blues, country, il tutto chiaramente filtrato da un’attitudine selvaggia, memore della lezione del primo Nick Cave o del Tom Waits più iconoclasta.

Lo si è sentito perfettamente nell’esecuzione puntuta dell’ottima I Feel Alive, che mi ha ricordato ancor più che nella versione in studio certe cose dei Firewater di Tod A, o in una Toad decisamente più sulfurea, caotica e rumorosa, aperta da un lunghissimo solo di sax di Oskar Carls e poi spedita in un groviglio macilento e malsano degno dei primi Bad Seeds.

Il momento più morbido del concerto è arrivato con Worms, impalcatura da ballata new wave, niente male, ma leggermente fuori tono col resto, mentre quello più delirante è arrivato alla fine, con una Shrimp Shack dilatata fino a venti minuti di durata, con sezione ritmica implacabile e metronomica, il sax a ripetere un riff basico e ottuso fino allo sfinimento, le Automatic a ballare sul palco, Murphy a farsi una passeggiata sulla balconata del locale in mezzo al pubblico e il tastierista Elias Jungqvist a fare crowd surfing.

Null’altro da aggiungere: impagabili!!!

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