Foto: Lino Brunetti

In Concert

Built To Spill live a Milano, 18/11/2015

Passare le giornate a lavoro e dedicare le sere alla musica, impone una vita sempre di corsa. Nonostante questo, arrivo al Magnolia quando gli Any Other stanno suonando giusto le ultime note. Mi dispiace ragazzi, sarà per la prossima volta! I primi che vedo, quindi, sono gli svizzeri Disco Doom, band che non conoscevo affatto e che si sono dimostrati una solida realtà nel loro saper costruire ottimi brani di rock classico vestiti di vigore chitarristico, tra stoner e qualche propaggine psichedelica. Senza dubbio da approfondire.

Gli headliner della serata, nonché quelli ovviamente più attesi, erano però i Built To Spill, a due anni di distanza dalla loro ultima sortita italiana – sempre qui al Magnolia – e reduci dalla pubblicazione recente di un nuovo album, l’ottimo Untethered Moon. Per quanto abbiano pubblicato la maggior parte dei loro dischi su Major, la band di Doug Martsch viene da sempre considerata tra quelle simbolo del più classico indie-rock americano, quello più chitarristico e dalle solide melodie. Tutto sommato la cosa ci può stare, i Built To Spill non hanno mai rinnegato le proprie radici e la loro fedeltà ad una musica che non ha mai previsto sputtanamenti commerciali. Certo, vederli dal vivo oggi rende più plastica una certezza, ovvero il fatto che si potrebbe tranquillamente eliminarlo quel prefisso “indie”, perché in fondo in fondo, i Built To Spill sono sempre stati e sono una grande rock band e basta.

In formazione a quattro – con solo un secondo chitarrista a fianco di Martsch, tanto che qualcuno ha reclamato la presenza del terzo, ricevendo come tutta risposta solo un: “Se vuoi ti ridò indietro i soldi”, da parte di un altrimenti laconico Martsch – i Built To Spill non sono una band che mette in piedi chissà quale spettacolo pirotecnico: sul palco sono piuttosto statici e tranquilli, di certo non fanno molta scena e se c’è un elemento che vince e risalta sopra a tutto, quella è solo ed esclusivamente la musica.

Memorabile rock chitarristico quindi, con ben impresso nel dna l’imprinting fulgido del Neil Young elettrico dei dischi coi Crazy Horse, evocato sia dal timbro fragile della voce ancora giovanile di Martsch, che dagli assoli e dagli intrecci delle due chitarre elettriche (solo a tratti, in effetti, la mancanza della terza è stata in parte avvertibile). Scaletta varia che ha attinto da diversi dischi della loro discografia, con una maggior prevalenza, piuttosto che da Untethered Moon (da cui credo siano stati tratti al massimo tre pezzi, ricordiamo ad esempio Living Zoo o la svagata ballata Never Be The Same), dal vecchio Keep It Like A Secret (uscì nel 1999), da cui sono arrivati, tra gli altri, alcuni dei momenti topici dello show, ovvero una sempre splendida Carry The Zero e una Broken Chairs lunghissima e stellare nel suo perdersi tra i rivoli psichedelici di aggrovigliati duelli chitarristici senza fine.

Una serata di grande rock insomma, capace per un attimo di farti scordare le angoscie e la follia del mondo che ci circonda, tutto ciò col solo potere di una musica potente e catartica di cui, qualsiasi cosa si metta di mezzo, non faremo mai a meno.

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