Recensioni

Hardpan, Tarpaper, Chicken Wire & Nails

hardpanHARDPAN
Tarpaper, Chicken Wire & Nails
Meer Music
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Sembra passata un’era geologica, ma c’è stato un tempo, lontano da quello attuale di pensosi cantautori barbuti dai molteplici passaporti e recupero indiscriminato di qualunque cosa sia appartenuta anche solo all’altroieri, in cui la salvaguardia, la continuazione e la bonifica della canzone d’autore a stelle e strisce era in pratica appannaggio di poche etichette francesi o germaniche.

Dai trasferimenti più o meno definitivi di Elliott Murphy, Willy DeVille o Johnny Thunders a Parigi, negli anni ’80, fino alla testarda opera di proselitismo effettuata nel decennio successivo dalla teutonica Glitterhouse, e dalla sua sussidiaria Blue Rose, attraverso la custodia e la promozione di musicisti americani pressoché ignorati in patria, sono diversi gli artisti del Nuovo Continente trapiantatisi nella vecchia Europa, anche solo per qualche mese e, soprattutto durante i Novanta, con il desiderio di continuare a maneggiare quell’oggetto resistente ma bisognoso di cure chiamato “canzone d’autore”. Tra essi Chris Burroughs, da Tucson, Arizona, dal 2000, dopo cinque album (i primi tre bellissimi), non più attivo come titolare; Joseph Parsons, da Philadelphia, Pennsylvania, più alacre, in senso lavorativo (l’ultimo Empire Bridges risale allo scorso anno), e dal 2010 membro fisso degli U.S. Rails; Todd Thibaud da Boston, Massachussets, forse il depositario della discografia più lineare, sebbene (quasi) mai capace di replicare la magia blue-collar dell’esordio Favorite Waste Of Time (1997); Terry Lee Hale, da Seattle, Washington, il più prolifico (non necessariamente il più bravo), da sempre meglio noto in Europa anziché negli States.

Costoro, forti di una sorprendente popolarità nella terra della Cancelliera Merkel (il loro sito è consultabile solo in tedesco, senza nemmeno l’opzione della lingua inglese), si sono nel 2002 riuniti sotto la sigla Hardpan (ossia, in ambito geologico, un «crostone» di terra del sottosuolo o argilla) per confezionare un disco assieme e, soprattutto, girare in lungo e in largo la Germania, nel frattempo diventata per tutti loro una specie di nuova nazione adottiva. Le pubblicazioni ufficiali del gruppo si sono fermate all’album omonimo, uscito su Blue Rose tredici anni fa e la stagione dopo arricchito di un gemello dal vivo, mentre i concerti sono proseguiti con una certa regolarità. Tarpaper, Chicken Wire & Nails, che già dal titolo evocante «carta catramata» (quella usata per impermeabilizzare i tetti), «reti metalliche» e «chiodi» sembra insistere sulla natura artigianale e laboriosa del gesto dei quattro, nasce proprio per accompagnare un tour dei mesi scorsi, è tutto dal vivo e le sue 17 tracce sono state registrate tra Francoforte e la Sassonia. Non dice nulla di nuovo, non intende né può farlo, ma presenta una rassegna attendibile e talvolta carismatica dello stile compositivo dei quattro, passando in rassegna con scanzonato equilibrio elettroacustico gli inni polverosi, desertici e di confine di Burroughs (al quale spetta il compito, con l’intensa Closer To The Border, di aprire le danze) e le miniature impressioniste di Hale (molto efficace nel quadro d’atmosfera della sinuosa Take Away), gli accavallamenti tra heartland-rock e sei corde pop di Thibaud (assai convincente in una Over The Line degna di Tom Petty) e le pennellate folkie di Parsons (teso a proporre una rielaborazione modernista dello stile “paludoso” di Tony Joe White nella persuasiva Crocodiles).

Difficile dire se la somma dei linguaggi, non troppo dissimili l’uno dall’altro, corrisponda a un’effettiva moltiplicazione dei talenti, anche perché il mestiere qui dispiegato sopravanza di gran lunga l’ispirazione e l’intento non è certo quello di modificare le coordinate “di genere” da cui si parte, semmai ripercorrerle con affetto e senso della misura (soprattutto personale). E se anche questa canzone d’autore all’insegna di cori da falò e storie minime di provincia rischia, dopo centinaia di cloni, di apparire ovvia sia dal punto di vista dei contenuti, sia in termini di estetica, l’onestà delle due cover in programma – It Makes No Difference (The Band) e Come As You Are (Nirvana) – risolve il problema di una generale carenza di pathos ricorrendo a una chiarezza stilistica inoppugnabile. Motivo per cui chi ancora spasima per strade blu, spunti dylaniani, ballate e chitarre troverà in Tarpaper, Chicken Wire & Nails motivi d’interesse che gli esegeti della novità a tutti costi, come sempre accade, detesteranno invece per principio.

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