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In piedi in riva al mare: in ricordo di Grant Hart

In ricordo di Grant Hart [1961-2017]

«Un uomo ha due motivi per compiere le proprie azioni, / il primo è l’orgoglio, il secondo è l’amore», cantava Grant Hart, con la solita furia ricchissima di proprietà melodiche e la consueta dolcezza polverizzata in una raffica di frustate hardcore, in She Floated Away, uno dei tanti capolavori racchiusi in Warehouse: Songs And Stories (1987), tra quelle “lunghe” l’opera numero sei dei suoi Hüsker Dü, e a questo punto, al di là di qualsiasi formula o semplificazione da carta stampata (oppure digitale, fa lo stesso), a chi scrive tocca mettere da parte l’orgoglio, sulla base del quale sarebbe opportuno starsene muti, e provare a scrivere una lettera d’amore si spera in grado di restituire, a quanti avranno voglia di leggerla, almeno uno dei mille motivi per cui Grantzberg Vernon Hart, nato a St. Paul, nel Minnesota, il 18 marzo del 1961 e scomparso ieri all’età di 56 anni, dopo una lunga battaglia con il cancro, mi ha cambiato la vita, migliorandola e rendendola più sopportabile.

È quasi impossibile, oggi, trasmettere a chi non le abbia vissute l’atmosfera romantica e l’euforia di anni dove, passata la sbornia degli spettacoli da arena e dei mega-allestimenti del decennio precedente, seguire le cronache del rock, o del «nuovo rock» (come andava di moda chiamarlo allora), in maniera attiva, militante, partecipata, significava quasi vivere gomito a gomito con i propri beniamini, finalmente accessibili (più in senso ideale che concreto, ma poco importa) nell’esuberanza comune di un concerto messo in piedi in un piccolo club della provincia o nella possibilità di ottenere un’intervista, a volte persino esclusiva, pur essendo redattori amatoriali di minuscole fanzine e non inviati di quotidiani o riviste a diffusione nazionale.

Gli Hüsker Dü di Hart, dell’altro cantante e compositore Bob Mould nonché del “baffo” Greg Norton al basso, partiti dalla velocità supersonica e martellante del punk in chiave hardcore e disco dopo disco avvicinatisi a una loro sofferta maturità, in un certo senso quasi classica, senza accettare un solo compromesso, riprendevano, all’inizio degli ’80, il dualismo di tante celebri coppie d’arte della storia del rock (Lennon e McCartney nei Beatles, Jagger e Richards negli Stones) per adattarlo alle nevrosi, al riflusso, alle fragilità e alle fredde solitudini delle stagioni a loro contemporanee. Conoscevano e amavano la storia della musica (qualcuno ricorderà le loro annichilenti rivisitazioni dei Byrds di Eight Miles High o del Donovan di Sunshine Superman), e hanno, dal canto loro, saputo scriverla e riscriverla attraverso lavori rabbiosi, scartavetrati e soprattutto brutalmente onesti, nei quali sia gli adepti del punk sia gli estimatori del classic-rock potevano trovare riflessa, in un’onda di frastuono a un certo punto sempre declinante verso la forma-canzone, una porzione delle proprie passioni e delle rispettive realtà quotidiane.

Se la scrittura di Mould tendeva a ripercorrere, anche nell’amarezza sconfinata dei testi, i sentieri tracciati dal furibondo rock chitarristico di Richard Thompson e Television, quella di Hart presentava invece sfumature da hippie, come se il batterista (capace d’infilare un’indimenticabile, epigrafica ballata acustica come Never Talking To You Again tra i solchi violentissimi di quella cattedrale di rumore e alienazione conosciuta col nome di Zen Arcade [1984]), volesse incartare, tra le fucilate dei suoi tamburi e le abrasive pennate del collega, un’anima più idealista e distesa, non meno tormentata, forse, ma di certo maggiormente incline (fatte le debite proporzioni) all’immediatezza pop.

Era, Hart, la parte «soul» del duo, e per quanto mi riguarda quella di cui è stato più facile innamorarsi a partire dal ritornello ossessivo della Diane incastonata dentro Metal Circus (1983), ossia una storia di stupro e follia già tendente, in un suo modo assurdo e per contrasto perfetto, al power-pop, e proseguendo con It’s Not Funny Anymore, devastante sventagliata punk-rock inclusa nello stesso EP, con la sconfinata tristezza di Turn On The News o con l’overdose radiografata in tempo reale di Pink Turns To Blue, con il pianoforte scemo e irresistibile di Books About UFOs (da New Day Rising [1985]) e quello melodrammatico di No Promise Have I Made (da Candy Apple Grey [1986]), con le scosse turbolente della Green Eyes di Flip Your Wig (1985) e il drive mostruoso di Charity, Chastity, Prudence And Hope, Too Much Spice, Tell You Why Tomorrow o uno qualsiasi dei pezzi da novanta riservati all’epitaffio di Warehouse.

Prolifici e imbattibili, gli Hüskers, capitanati da due autori entrambi omosessuali (Hart per la precisione bisessuale) quando la cosa non era certamente ancora motivo di ostentazione o affiliazione, ci fecero discutere all’infinito allorché — primo gruppo tra quelli del circuito cosiddetto indie o alternativo — scelsero di firmare per la multinazionale Warner Bros. dopo anni di residenza in casa SST (ma com’era ovvio non persero un solo grammo della loro intensità e della loro maestria), e altrettanto ci fecero piangere nel momento in cui, diventate irrisolvibili le contraddizioni interne e suicidatosi il manager di vecchia data David Savoy (rimpiazzato da Mould stesso), decisero di sciogliere la sigla.

Curioso, poi, che Hart scegliesse di esordire da solista proprio con una composizione (magnifica) in precedenza proposta agli Hüskers e nondimeno bocciata da Mould, preoccupato dalla somiglianza di questa (lo dirà lui stesso nel biografico See A Little Light: The Trail Of Rage And Melody, pubblicato per i tipi di Little, Brown & Co. nel 2011, dove spiegherà anche come quel rifiuto abbia inaugurato l’epoca delle frizioni tra i due) con una composizione coeva dei Dream Syndicate: 2541, sublime jingle-jangle psichedelico con tracce dei Velvet del terzo album, apparve su di un 12” omonimo e pochi mesi dopo, parafrasata in un nuovo e più robusto arrangiamento elettrico, nel bellissimo Intolerance (1989), debutto da titolare cui fecero seguito, prima di una lunga oblazione di sé, due ottimi album a nome Nova Mob, formazione tanto estemporanea quanto sottovalutata con la quale il nostro si esibì e produsse fino alla metà dei ’90.

Splendido, benché all’epoca ignorato dai più, compresi quanti ora piagnucolano inconsolabili, fu anche Ecce Homo (1995), live in solitaria registrato presso il Crocodile Cafe di Seattle con l’obiettivo di sopperire appunto allo scioglimento dei Nova Mob (pensionati il giorno prima), e miracoloso, quattro anni dopo, apparve Good News For Modern Man, totalmente snobbato dalla stampa tutta, inciso suonando da solo ogni strumento e ancora benedetto dall’ispirazione necessaria a fare di A Letter From Anne-Marie un capolavoro di proiezione byrdsiana fuori dal tempo. Con quel titolo, «buone notizie per l’uomo moderno» (da slogan pubblicitario anni ’50), era come se Hart sottolineasse ancora una volta la sua fiducia e il suo attaccamento alla forza taumaturgica del fare musica, importante per lui (e per noi), all’alba del nuovo millennio, quanto lo era stata nelle società occidentali di mezzo secolo prima: un piccolo indizio, per carità, ma sufficiente a ipotizzare, per questo vecchio amico diagnosticato sieropositivo per errore nel 1988 (molti continuarono a darlo per spacciato, anche a distanza di decenni, sulla base di quella notizia sballata), senz’altro succube, in passato, d’una moltitudine di droghe (altra ragione di attrito con il pulitissimo Mould) e nondimeno sobrio dalla fine degli ’80, un ritorno di fiamma e di forma al quale fu piacevole credere.

Invece Hart sparì di nuovo dalla circolazione; lo vedemmo solo, fisicamente distrutto, in occasione di un concerto organizzato, nel 2005, da musicisti dell’area di Minneapolis per sostenere le spese mediche di Karl Mueller, bassista dei concittadini Soul Asylum affetto da cancro. Mueller passò a miglior vita nel giugno di quell’anno, mentre riguardo a Grant Hart si iniziava a supporre fosse afflitto dallo stesso male. Hot Wax (2009), inaugurato dall’irresistibile rock and roll à la Patti Smith Group di You’re The Reflection Of The Moon On The Water, riaprì vecchie ferite (avendolo realizzato con elementi del giro canadese di Godspeed You! Black Emperor e A Silver Mt. Zion, l’artefice sostenne di aver ricevuto di più, dalla collaborazione di qualche settimana con costoro, che da nove anni al fianco di Bob Mould) e ciò nonostante recò probanti testimonianze, per quanto mi riguarda più e meglio dell’ultimo The Argument (2013), concept influenzato da John Milton bello sebbene troppo ambizioso per reggere senza tentennamenti la mole di un doppio album, di un’ispirazione ancora viva, dinamica e incisiva.

Procurarsi la raccolta di rarità Oeuvrevue (2010), per quanto interessante, non lenirà il dispiacere per una scomparsa troppo repentina e precoce, resa ancor più penosa dal diluvio di stupidaggini piovuto sulla memoria del nostro (dal sito del mensile GQ: «Il batterista punk che scriveva le canzoni d’amore», ma perché? Too Far Down o Bed Of Nails, dal reperorio di Mould, non sono forse canzoni d’amore? Per quale motivo ridurre la sensibilità gigantesca di Hart a uno slogan defilippiano?). Per Grant Hart, per l’autore stupefacente di Don’t Want To Know If You Are Lonely e Sorry Somehow, e per gli Hüsker Dü, cantori epilettici della «teenage wasteland» più eccitante e scorticata messa su vinile dai tempi degli Who, anticipatori della parossistica alternanza tra esplosioni di aggressività e bolle di quiete destinata a diventare un marchio di fabbrica per Pixies e Nirvana; per questi musicisti enormi continua a restare valido il titolo del libro (indispensabile) di Michael Azerrad sul rock alternativo degli anni ’80, Our Band Could Be Your Life (da una canzone dei Minutemen), «la nostra band può essere la tua vita»: la può rispecchiare, in diretta, e la può far sentire meno confusa e sola tramite la partecipazione a un progetto, a un’estetica, a una scena.

Grant Hart ha fatto parte della mia vita, e continuerà a farlo. È per questo motivo che, prima di riascoltare per l’ennesima volta e a tutto volume Actual Condition, o di contare quante settimane ci separano dall’uscita di Savage Young Dü (triplo cofanetto sui primordi del gruppo in procinto di essere pubblicato dalla Numero Group), trovo giusto dedicargli quanto è dovuto (come minimo) a chi ha saputo essere in anticipo sul suo tempo, segnandone con tratti indelebili la fisionomia: un po’ di silenzio.

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