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John Trudell: Cuore di tuono

In ricordo di John Trudell, 1946 – 2015


Benché avesse partecipato a vari film, e in particolare, come attore, a Cuore Di Tuono (Thunderheart, 1992) e, come consulente di produzione, al suo gemello documentario Incidente A Oglala (Incident At Oglala), entrambi – il primo un thriller ambientato tra i nativi americani, il secondo una ricostruzione del processo-farsa, costato due ergastoli, all’attivista Leonard Peltier – e nello stesso anno diretti da Michael Apted, malgrado la stima di moltissimi colleghi e addirittura un sofferto lungometraggio a lui dedicato dalla filmmaker Heather Rae (Trudell, buon successo al Sundance Festival del 2005), il nome, il volto scavato e la storia personale di John Trudell non hanno mai fatto breccia nel cuore mainstream di ascoltatori e spettatori, relegandolo per tutta la vita al ruolo di personaggio di culto, magari citato e rispettato ma, in genere, poco conosciuto. Merito, o colpa, di un carattere spigoloso e di un’indomabile vocazione alla verità, all’approfondimento, al conflitto politico e all’espressione priva di mediazioni, tutte caratteristiche che lo portarono, nel 2004, a litigare anche con il Movimento degli Indiani d’America (AIM), del quale era stato presidente operativo tra il 1973 e il 1979, a causa di una sua deposizione rilasciata su uno dei membri, con conseguente boicottaggio, da parte dell’organizzazione, contro le opere e i libri di Trudell. Già, perché tra le molteplici attività dell’uomo, oltre al rock’n’roll c’erano pure la poesia e la militanza civile in tutte le sue forme, ma soprattutto quelle finalizzate a mettere sotto i riflettori le ingiustizie subite dal suo popolo.

Nato, poverissimo, il 15 febbraio del 1946 in una riserva Santee Sioux del Nebraska settentrionale, da padre Santee Dakota e madre messicana, Trudell aveva lasciato il Midwest per arruolarsi nella Marina (dove sarebbe rimasto per cinque stagioni, finendo anche a combattere in Vietnam) a diciassette anni appena; dismessi gli abiti militari e frequentato qualche corso presso i college della California, aveva poi scoperto l’attivismo politico e la causa dell’orgoglio pellerossa, rimanendole fedele fino all’ultimo. Il suo nome era apparso per la prima volta nei dossier dell’FBI quando, nel 1969, per protestare il mancato rispetto dei trattati firmati dal governo degli Stati Uniti con le tribù native, aveva guidato il raduno di 600 indiani, pacifici e disarmati, sull’isola di Alcatraz (sede dell’omonimo penitenziario, chiuso nel ’63, al largo della baia di San Francisco), chiedendo di poter trasformarne gli edifici inutilizzati in centri di studio sul retaggio culturale dei suoi fratelli: una manifestazione terminata con l’intervento delle truppe federali e l’arresto di tutti i dimostranti. Dieci anni dopo, a Washington, per contestare il protrarsi della detenzione del citato Peltier, Trudell aveva bruciato la bandiera americana in pubblico. Il giorno seguente, un incendio di natura dolosa appiccato nella riserva Payute Soshone di Duck Valley, Nevada, distrusse la casa del nostro, uccidendone la moglie Tina, i tre figli e la suocera. Fin dal primo momento, l’FBI (in possesso di 17’000 pagine di documenti sul conto del nostro), si rifiutò di indagare sugli eventi, sostenendone l’accidentalità, ma Trudell, pur devastato dal dolore, non si perse d’animo e scoprì, anzi, una vena artistica assecondando la quale finì per aderire al progetto No Nukes (cinque concerti organizzati da musicisti vari, dopo l’incidente di Three Mile Island del marzo ’79, per opporsi all’utilizzo dell’energia nucleare), dove conobbe Jackson Browne, col quale strinse un’amicizia durata per tutta la vita.

Stimolato dal musicista, Trudell iniziò a mettere in musica le proprie poesie, dapprima in maniera piuttosto rudimentale, poi, una volta conosciuto, nel 1985, il chitarrista indiano Jesse Ed Davis (di origine Kiowa da parte di madre, morto per overdose nel 1988, lo stesso anno in cui Trudell era andato in tour con gli australiani Midnight Oil, che ne avevano accompagnato i reading con fiammate di psichedelia hendrixiana), in modo sempre più specifico e convinto. Dal 1983 al 1992, in pieno regime di autarchia, Trudell incise diverse audiocassette (compreso un disco per bambini), ma la svolta, grazie all’interessamento del solito Browne, arrivò quando la Rykodisc decise di ripubblicare, con suoni nuovi di zecca e una rilettura eseguita per l’occasione, parte di un nastro del 1986 con l’aggiunta di alcuni pezzi inediti. AKA Grafitti Man (1992) ebbe l’effetto di una bomba, perché si dimostrò in grado di contraddire tutto il folklore da cartolina associato ai nativi americani (anche se non mancavano, come non mancheranno mai, i cori visionari del fidato Quiltman) attraverso un suono sporco e secco, essenziale e sferzante, dove il peso dei ricordi e l’orgoglio etnico venivano affidati alle ballate oniriche di Bob Dylan (che definì Baby Boom Ché «la più bella canzone degli ultimi dieci anni»), al talkin’ alienato e ossessivo di Lou Reed, ai riff urticanti dei Rolling Stones. Ancor più nervoso e rockista il successivo Johnny Damas And Me (1994), intenso, drammatico e immediato come un tamburo di guerra o una dichiarazione di battaglia scritta sui muri (al punto da meritare un’elegia scritta apposta per Trudell da Kris Kristofferson, ovvero la Johnny Lobo contenuta in A Moment Of Forever [1995]), e ancora più bello, cinque anni dopo, il dolente Blue Indians, l’ultimo album della fase aurea dell’artista e forse il suo capolavoro, costruito sull’atmosfera, la consapevolezza, i tocchi modernisti, lo spirito folk e la ruvidità blues di un poema elettroacustico sulla vita nelle riserve e sull’insidiosità delle frontiere interiori.

Dal 2001 dell’ancora interessante Bone Days, prodotto dalla nipote acquisita Angelina Jolie (figlia dell’attrice Marcheline Bertrand, ex-moglie di Jon Voight, con la quale Trudell aveva avuto una lunga relazione), l’artista aveva diradato l’attività discografica, preferendo concentrarsi sui temi dell’ecologismo e del consumo responsabile di canapa, senza però abbandonarla del tutto. Oltre a qualche ambiziosa autoproduzione, come il doppio Madness & The Moremes (2007), e a un bel live registrato alla radio francese (Live À Fip, 2005), negli ultimi mesi aveva riscoperto anche i lati più caratteristici della sua estrazione indigena, provando a rielaborarli in chiave contemporanea nel suggestivo extended Through The Dust (2014), realizzato con il produttore svizzero Jonas “Kwest” Leuenberger, e il febbrile Wazi’s Dream (2015), di nuovo con i suoi Bad Dog, di nuovo indipendente, forse troppo lungo e confusionario eppure animato da una vena poetica ancora lancinante e da una voce rock per sempre carica di rabbia e disincanto. Sofferente e smagrito già nella copertina di quest’ultimo album, John Trudell, minato da un cancro incurabile, ci ha lasciati lo scorso 8 dicembre, senza strepiti o comunicati. Americano fino in fondo, non ha mai tradito i suoi ideali e le sue scelte pratiche, l’idea e il sogno di potersi fare strada da sé, senza rinunciare alla voce, alle accuse, al senso dell’onore, all’autonomia (anche dalla propria tribù), alle denunce, alla scrittura e alla forza catartica del rock’n’roll. Il suo addio, in questo senso, ha semplicemente completato un quadro esistenziale di lacerante, responsabile e a volte disperata autenticità.

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