In ricordo di Larry Coryell [1943-2017]
Tra i numerosi demeriti addebitati alla cosiddetta fusion — variante idiomatica del jazz in cui gli schemi di questo incontrano gli strumenti elettrici del rock — resterà sempre predominante quello di essersi presto inchinata a spudorate forme di commercializzazione dove il suffisso -rock, secondario rispetto a quello subentrante del -pop, avrebbe perso mordente in favore di pleonastiche esibizioni di virtuosismo e petulanti cadute di stile.
Tuttavia, quando il jazz-rock mosse i primi passi, stimolato dagli esempi nobili di Miles Davis (In A Silent Way) e Frank Zappa (Hot Rats), entrambi confezionati nell’anno di grazia 1969, nelle sue composizioni l’aspetto concernente il rinnovamento linguistico e l’intreccio di differenti forme espressive era ancora maggioritario rispetto a quello, percepibile ma allora lontano, di eventuali derive mercantili. Prima ancora dei capisaldi sin qui citati, a dettare le regole del nuovo ibrido erano stati gli album di un vibrafonista dell’Indiana di nome Gary Burton, un tempo al servizio di Stan Getz e allora alla guida di un formidabile quartetto responsabile, tra le altre cose, dell’esordio stesso del vernacolo jazz-rock (Duster, 1967) e di una delle sue incarnazioni più roboanti, immaginifiche e convincenti, guarda caso enunciate in un lavoro interamente dedicato al repertorio dell’autrice californiana Carla Bley (A Genuine Tong Funeral, 1968).
Chitarrista di quel gruppo era un ragazzo nato, nel 1943, nella cittadina costiera di Galveston, in Texas, e assurto all’onore delle cronache musicali dopo aver abbandonato le pompose generalità di Lorenz Albert Van DeLinder per assumere quelle più alla mano di Larry Coryell, un piccolo musicista prodigio in grado di farsi le ossa, nel quintetto del batterista Chico Hamilton, rimpiazzando la sei corde mediterranea e fiammeggiante dell’ungherese Gábor Szabó. Ispirato in egual misura da Chuck Berry, dai Beatles, da Wes Montgomery e dall’idolo Chet Atkins, Coryell aveva già suonato rock and roll, epidermico e ricco di melodie contagiose seppur intercalato da lunghe, singolari e quasi lisergiche improvvisazioni, con musicisti jazz (in mezzo a loro quel Bob Moses i cui tamburi l’avrebbero seguito alla corte di Burton e il sassofonista Jim Pepper) alla testa dei Free Spirits, rock-band nata e morta nello srotolarsi di pochi mesi risalenti alla seconda metà dei ’60 grazie a cui ebbe occasione di mettere in mostra il proprio anticonformismo e la personale inclinazione a trascurare gli steccati di genere, nel perenne tentativo di assecondare un nomadismo sonoro in virtù del quale l’avremmo poi sentito dialogare con Jack Bruce e Charlie Mingus, colleghi indiani e musicisti brasiliani.
Le sue prime opere, sovente recanti in copertina l’immagine della moglie Julie Nathanson, vennero a ragione considerate veri e propri punti cardinali della fusion, e in particolare due di loro, ossia l’onirico, intricatissimo, supersonico Spaces (1970), puntellato da una formazione irripetibile composta dalla chitarra di John McLaughlin, dal pianoforte di Chick Corea, dai tamburi di Billy Cobham e dal contrabbasso del cèco Miroslav Vitouš, e il successivo Barefoot Boy (1971), composto invece da tre feroci improvvisazioni oscillanti tra i pianeti afrocubani di Santana e le distorsioni del più selvaggio Jimi Hendrix, andrebbero conosciuti (e venerati) anche da chi questa gamma di suoni non l’ha mai digerita.
La foga elettrica di Coryell divenne ancor più chiara nelle fila degli Eleventh House, carburatore fusion tanto sferzante e vigoroso quanto dimenticato, autore di tre, devastanti album tra il ’74 e il ’76 (portatevi a casa il mediano Level One [1975] se dovete sceglierne uno soltanto), scioltosi allorché il suo fenomenale batterista — l’afro-indiano Alphonse Mouzon, spentosi lo scorso dicembre — raggiunse la celebrità per conto proprio e il nostro decise di concentrarsi sui segreti e sulle armonie della chitarra acustica, fino a confezionare, successivamente a un melanconico The Restful Mind (1975) consacrato a Jimmy Webb e realizzato con il contributo degli Oregon, più di un lavoro esclusivamente dedicato alle risorse di quello strumento. Dagli anni ’80 in poi, Coryell diede spesso l’impressione di vivere di rendita sulle coordinate del proprio stile, e benché non siano mancati i dischi degni di nota (per esempio lo struggente ‘Round Midnight [1983], creato dalle gocce di hard-bop della notte con l’ausilio del pianista nipponico Fumio Karashima), l’estro dell’artista, sprovvisto di necessità narrative e in più di un’occasione appiattito, anziché su di un percorso coerente, sui frutti del caso comunque garantiti dalle sue risorse tecniche, parve soccombere a un’articolazione in genere piuttosto meccanica.
Passato in rassegna tutto il kitsch acrobatico possibile, il chitarrista piazzò qualche zampata nei decenni seguenti, soprattutto dirigendo le mosse del dinamico trio da lui costituito con il batterista Lenny Guide (dai Return To Forever di Corea) e il giovane bassista Victor Bailey, e trovò un nuovo stile, meno ipercinetico, contrassegnato da una più aulica e lenta distillazione delle note, come se l’incrementare del requisito anagrafico avesse fatto scattare nel suo animo un rinnovato interesse verso blues e country, una voglia ciclica, lenta, meditata e matura di ricondurre le regole del gioco (sonoro) al dialetto primordiale della propria terra, al ritmo pulsante e profondo, alle distese infinite di spazio, polvere e nuvole di quel Texas in cui aveva visto la luce.
Morto a New York lo scorso 19 febbraio, a causa di un attacco cardiaco, all’età di 73 anni, Larry Coryell non faceva forse un grande disco (anche se non sottovaluterei il bluesatissimo live del 2006 alla Sky Church di Seattle e le imprevedibili ascensioni elettriche degli ultimi The Lift [2013] e Heavy Feel [2015], sontuosa doppietta dal sapore quasi free) da un pezzo. Ma lo ricorderemo, e lo ringrazieremo, a lungo per non essersi mai dimenticato di trasmettere all’ascoltatore, tenendo in ogni a caso a bada i livelli di enfasi e artificiosità, la tenerezza, la crudeltà e le deviazioni della chitarra, l’immediatezza del suono e delle sue rifrazioni magari esplorate senza imboccare una direzione definitiva eppure, per magia e per mistero, tutte le volte capaci di far risuonare un’inquietudine irriducibile che tanti colleghi, in particolar modo più giovani, neanche sanno (né mai sapranno) cosa sia.