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La musica di Ian McLagan (1945/2014) – Good Boy (…when he was asleep)

Il ricordo forse più bello, in qualche modo affettuoso e in linea col carattere estroverso e pieno di joie de vivre del personaggio, l’ha evocato Dave Alvin, sul propria pagina Facebook, ricordando di quando, durante un party nei primi anni ’90, verso le cinque di mattina, si imbatté nel musicista e si sentì dire, «Questa è proprio una gran cazzo di serata! Mi ricorda il tour dei Faces del ’73. Perché non uscivamo assieme, in quel periodo?». «Perché allora», rispose Alvin, «ero alle scuole superiori». «Be’,» replicò Ian McLagan, «non avresti dovuto farti scoraggiare!».

Ian Patrick McLagan, per gli amici “Mac”, era nato nel Middlesex inglese, nella primavera di 69 anni fa, ma ha sempre coltivato un gusto tutto particolare per la musica americana, per le tradizioni del primo rock & roll, per il rapimento cinetico del gospel. Divenne tuttavia celebre come tastierista (organo Hammond e piano elettrico Wurlitzer) di uno dei gruppi più caratteristici del Merseybeat britannico, gli Small Faces di Steve Marriott e Ronnie Lane, ventenni arrabbiati, proletari e mod ai quali Mac portò in dote la sensualità felpata e boogie di Jimmy Smith – il suo dichiarato modello di stile – aiutandoli così a creare il rock’n’soul di Carnaby Street e il rhytm & blues psichedelico di un capolavoro in anticipo sui tempi quale Ogden’s Nut Gone Flake (1968). Assoldato dal gruppo nel 1965, sotto il compenso non proprio faraonico di 30 sterline a settimana, Mac vi rimase anche dopo la defezione di Marriott (che se ne andò per formare gli Humble Pie) e trovò anzi nella nuova ragione sociale dei Faces – un perfetto contraltare, se possibile ancor più stradaiolo, disordinato e pezzente, della vena rockinrollista degli Stones – l’occasione perfetta per sciogliere, sui tasti, le briglie di un portamento diviso tra boogie indiavolato alla Jerry Lee Lewis, groove sudista alla Booker T. Jones e un volume, una pienezza, una densità di suono a dir poco inconfondibili. Il sodalizio con il cantante dei Faces, Rod Stewart, proseguì nei primi e migliori album di questi, dall’eponimo The Rod Stewart Album del ’69 fino al sottovalutato Smiler (1974), e corse in parallelo alle collaborazioni col chitarrista della stessa band, il futuro Rolling Stone Ronnie Wood, datore di lavoro di Lagan dall’esordio solista I’ve Got My Own Album To Do (1974), assai divertente sarabanda errebì tutta da riscoprire, fino al penultimo, trascurabile I Feel Like Playing (2010). Nella seconda metà dei ’70, Mac si unì ai Rolling Stones, dove ritrovò Wood, prendendo parte alle registrazioni di Some Girls (1978) e arruolandosi nell’estemporanea avventura dei New Barbarians, la poco longeva seppur molto mitizzata band formata, per una ventina di concerti targati 1979, da Keith Richards, Ron Wood, il sassofonista Bobby Keys (anch’egli scomparso pochi giorni fa), il virtuoso del basso jazz Stanley Clarke e il batterista Zigaboo, al secolo Joseph Modeliste, leggenda funk di New Orleans nonché membro fondatore di Meters e Wild Tchoupitoulas. Prima di lasciare per sempre l’Inghilterra, tuttavia, ebbe modo di apparire in Ghosts Of Princes In Towers (1978), il debutto dei Rich Kids di Glen Matlock (Sex Pistols), un disco di punk-pop e hard-rock tanto eccitante quanto sfortunato: inaugurò in questo modo una carriera di sideman al tempo stesso richiestissimo e nondimeno sovente convinto a presentarsi in studio solo e esclusivamente sulla base del proprio gusto personale, senza problemi capace di passare, com’era successo nel 1973 con Chuck Berry e Juicy Lucy, da produzioni multimilionarie a progetti indipendenti. Accadde pertanto di trovarlo, da un lato, nei lavori di Carly Simon, Bonnie Raitt, Joe Cocker, Izzy Stradlin (Guns’N’Roses) e Bruce Springsteen, e dall’altro negli album low-cost ma non meno emozionanti dei finlandesi Hanoi Rocks, degli australiani Paul Kelly e 30 Odd Foot Of Grunts (proprio quelli dell’attore Russell Crowe), dei conterranei Robyn Hitchcok e Billy Bragg (col quale condivise anche numerosi spettacoli dal vivo), persino di un giovanissimo Ryan Adams.
Trasferitosi prima a Los Angeles e poi, stabilmente, in Texas, Mac divenne parte integrante della scena di Austin, e difatti intervenne a più riprese nei dischi di James McMurtry, Robert Earl Keen, Wyckham Porteus, Mandy Mercier, Robyn Ludwick, Michael Fracasso, Calvin Russell, Rainravens, Slaid Cleaves, Beaver Nelson, Mary Gauthier, Chris Gaffney, Ray Wilie Hubbard e molti altri. Pur continuando a suonare a fianco di amici quale il citato Wood, oppure il Paul Weller solista, sviluppò un rapporto particolare con Alejandro Escovedo (fu infatti tra le colonne del doppio album tributo Por Vida [2004]), e Lucinda Williams, che accompagnò spesso dal vivo e in studio, fino a diventare uno dei cardini sonori del recentissimo, spettacolare Down Where The Spirit Meets The Bone (2014).
In America come Inghilterra, il nome di Mac fu sinonimo immancabile di classicità rock, di una dimensione vitalistica, ribelle e vorticosa (ancorché, all’occorrenza, capace di signorilità e rigore degni del più sobrio dei turnisti) prelevata dall’epoca d’oro del genere, dalle note fluide e bluesy di Fats Domino, dallo swing indiavolato di Fats Waller, dal ragtime adattato alla povertà di Harlem nelle melodie di Willie Smith, e difatti venne assunto da parecchi artisti interessati a scontornare in senso classico, passando magari dal punk e dalla new-wave alla canzone d’autore pura, il proprio formato rock. Esempi straordinari di questa ritrovata attitudine tradizionale (non per forza tradizionalista) ottenuta ricorrendo ai fraseggi estesi e morbidi di Mac si ascoltarono soprattutto nel Paul Westerberg magnifico di 14 Songs (1994) e nei Georgia Satellites mai così aggressivi e in parallelo incisivi, organici e senza tempo di In The Land Of Salvation And Sin (1989), intersezione tra hard e rock sudista fra le più efficaci degli ultimi trent’anni, ma sarebbe perlomeno il caso di ricordare anche il febbricitante rockabilly gli Stray Cats su Let’s Go Faster! (1990) e, poche stagioni dopo, l’altrettanto esaltante debutto proprietario del loro contrabbassista (Lee Rocker’s Big Blue [1994]), il folk-rock à la REM dei Dumptruck di Seth Tiven, fattosi totalmente byrdsiano nel tardo Terminal (1999), e l’indie-pop nervoso e irregolare dei Cotton Mather, divenuto autentico pop’n’roll per chitarre nei pressi di The Big Picture (2001), il Frank Black (Pixies) memphisiano e rootsy dell’ambizioso Fast Man Raider Man (2006) e il Warren Haynes annerito e soulful di Man In Motion (2011).
Benché occupatissimo, Mac amò riempire il tempo libero coordinando anche l’attività della Bump Band, la formazione di compagni, conoscenti e amici vari (dagli stessi Wood e Richards a Mark Andes degli Spirit, da “Scrappy” Jud Newcomb dei Loose Diamonds a Don Harvey, già batterista per la Martha Davis dei Motels) da lui capitanata a partire dalla metà degli anni ’70, attiva fino a pochi mesi orsono e nel tempo trasformatasi in una vera e propria istituzione del festival Austin City Limits. Malgrado sia difficile definire imprescindibili i dieci album totalizzati dal 1977 di Troublemaker al 2014 di uno United States in pratica fresco di stampa, il secondo Bump In The Night (1980), sgangherata e piacevolissima gazzarra roots-rock coi tamburi di Ricky Fataar (Beach Boys) e il sax di Keys, e il più recente, commosso Spiritual Boy (2006), un omaggio allo scomparso Ronnie Lane impreziosito da una bellissima versione della classica Itchycoo Park, dovrebbero comunque figurare nella collezione di qualsiasi appassionato di “cose” rock.
Sposato alla modella inglese Maryse Elizabeth Patricia Kerrigan, moglie di Keith Moon dal ’66 al ’75, fino alla sua morte tragica e prematura (nel 2006, appena cinquantasettenne, fu investita da un camion), Ian McLagan era stato ricoverato martedì sera, nell’ospedale di Austin, in seguito a un infarto. Il giorno dopo avrebbe dovuto aprire un concerto del connazionale Nick Lowe, nel Minnesota, ma le complicanze sono risultate fatali. Scomparsa la consorte, McLagan aveva dichiarato: «Lei era tutto, per me, ma so che la ritroverò in un posto migliore». Ian McLagan e signora, Bobby Keys, Ronnie Lane, Steve Marriott: non so se il loro «posto migliore» esista davvero, ma ovunque si trovino, mi auguro si tratti di un posto dotato di un’acustica decente, affinché possano, di nuovo, suonarvi a lungo, per tutto il tempo che si sono guadagnati.

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