Foto: Cristina De Maria

In Concert

Paul Collins live a Marina Romea (RA), 02/05/2015

Ne è passato di tempo dalle stagioni in cui il newyorchese Paul Vincent Collins, da sempre alla guida di un (variabile) prontuario del rock chitarristico denominato The Beat, mescolava le melodie di Byrds, Beatles e Kinks con gli scossoni elettrici degli Who, meritandosi così l’appellativo di massimo esponente (nonché, a oggi, di ultimo e irriducibile portabandiera) del power-pop americano. E molte cose, da allora, sono cambiate: Collins, pur continuando (saggiamente) a utilizzare, per le copertine dei suoi dischi, immagini della propria gioventù, ha perso per strada capelli e macilenza, le sue opere hanno trovato un ormeggio sicuro presso un’etichetta – la Alive Naturalsound del californiano Patrick Boissel – ispirata alla lettera al gesto tra punk-rock e revival del nostro, i lavori maggiori dei Beat (ossia i primi due album pubblicati su CBS a cavallo tra ’70 e ’80) sono stati canonizzati dalle costose ristampe in altissima fedeltà della Culture Factory, croce (del portafogli) e delizia (dei padiglioni auricolari) per qualsiasi audiofilo degno di questo nome, di fatto levandosi al rango di piccoli classici.
Ciò nonostante, a non essere cambiate affatto sono la grinta, la disponibilità, l’energia e il divertimento con cui Collins continua a aggredire il palco, portandosi dietro persino un pubblico in larga parte composto da coppie, famiglie o gruppi di conoscenti arrivati al bagno Boca Barranca di Marina Romea per gustare una cena di pesce o festeggiare (rumorosamente) un compleanno. Quando però l’artista, intorno alle 23:30, si piazza dietro il microfono imbracciando la fidata Rickenbacker, anche gli avventori occasionali e i buongustai in libera uscita del sabato sera serrano le mandibole, ripongono le posate e iniziano a battere i piedi al ritmo di una parata di canzoni dove l’innocenza e le frenesia del r’n’r anni ’50 di Eddie Cochran e Buddy Holly si lasciano felicemente travolgere, in un vortice di ritornelli killer e irresistibili armonie vocali, dalla sgangherata irruenza dei Ramones. Sebbene gli ascoltatori si dividano fin da subito in due gruppi distinti, con i ragazzi dalla vocazione più danzereccia (e dal robusto consumo di birre) da un lato e i clienti rimasti seduti ai propri tavolini dall’altro, la partecipazione del pubblico è collettiva, festosa, compiaciuta. Collins pesca parecchio dai recenti King Of Power Pop (2010) e Feel The Noise (2014), d’altronde i suoi album migliori dopo un periodo di relativo appannamento, spingendo sul guitar-rock esuberante e abrasivo di C’Mon Let’s Go!, I Need My Rock’n’Roll, Little Suzy e rallentando appena (ma appena appena) sulle citazioni vintage di The Letter (Box Tops) e sulla malinconia folk-rock di Many Roads To Follow.
Carburata dalla vivacità e dal manifesto coinvolgimento di una band – Telecaster, basso e batteria conosciuti in Irlanda solo due mesi fa (Collins dixit) – con la metà (della metà) degli anni dell’artista titolare, l’esibizione scivola entusiasta sopra una parata di intramontabili prototipi sull’arte di intrecciare melodie contagiose e scariche rock, dalla storica Hanging On The Telephone dei Nerves (cioè il gruppo in cui Collins, verso la metà dei ’70, militava a fianco di Peter Case e Jack Lee), resa celeberrima (nel 1978) dalla versione dei Blondie e qui proposta come terzo bis, dalla sferzante Rock N Roll Girl all’epilettica Let Me Into Your Life, scritta a quattro mani con Eddie Money nel 1979. Tra i colpi di una Working Too Hard che cita il rock acido dei Seeds in chiave meno depravata e più frizzante e la febbricitante enfasi pop di una Walking Out On Love risalente addirittura alla brevissima epopea dei Breakaways (per chi se li ricorda), Paul Collins attraversa il concerto senza età, senza tempo e senza un solo cedimento: il sorriso stampato sulle labbra è quello del gentiluomo innamorato della vita e del proprio lavoro, il sudore e lo zelo sono quelli del professionista abituato a spremere sempre ogni goccia della passione disponibile.
Impossibile, e ingiusto, chiedergli altro, perché, come continua a recitare uno dei suoi inni più fragorosi, The Kids Are The Same, «i ragazzi sono uguali», nel ricercare divertimento e abbandono. E questo, più di tutto, sa ancora regalare Paul Collins, a dispetto dell’anagrafe rimasto (e noi con lui) ragazzo fuori e ragazzo dentro.

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